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Il sorriso di Daphne

Il sorriso di Daphne
Marzo 01
02:00 2007

Accompagnata dal leit-motiv di elettrificate citazioni dal Concerto in mi minore di Mendelssohn, inserita nella cattedrale della natura o della scienza, come legger si vogliano le scene, questa produzione di Nuova Scena-Teatro Stabile di Bologna per la regia di Alessandro D’Alatri, presentata al Teatro Valle di Roma nel mese di febbraio, merita di entrare a pieno titolo tra i classici della scena.
Tra grigie colonne contorte di libri, quasi pilastri metaforici di una cattedrale della scienza, si consuma l’ultimo atto della vita di uno studioso di botanica, Giovanni, condannato da una malattia progressiva ad una morte dolorosa e senza dignità. In quest’ultimo segmento del suo percorso terreno due donne l’accompagneranno: la sorella Rosa e l’ex allieva Sibilla, strenua sacerdotessa di vita l’una, ministra di morte l’altra. Se nella scenografia essenziale l’’abside’ di questo tempio immaginario è occupata dai libri, raccolti amorosamente in tutta una vita, la ‘navata’ di sinistra contiene invece il letto del morente e il suo adorato violino di ragazzo, appeso ormai da anni ad una parete, racchiude il suo passato. A sinistra si apre anche la porta verso la realtà: la cucina, il resto della casa, le incombenze e le faccende quotidiane della vita, i cui riti minori Vanni, distratto nella scienza, ha da tempo lasciato a Rosa che li celebra con tenace e instancabile sopportazione: preparare il tè, rifare il letto, pagare le bollette. Nella ‘navata’ di destra si apre invece la finestra, lo sguardo verso il sogno, la magia di un amore sfiorato e non saputo o voluto afferrare. Da quella finestra un giorno Rosa vedrà arrivare la giovane Sibilla, l’ex allieva che Vanni aspetta con ansia, venuta a chiedergli la prefazione ad un suo manuale scolastico in preparazione. E soprattutto, a destra, in primo piano sulla scena, avvolta in un cono di fredda luce, sacrale e arcana sul suo ‘altare’ c’è lei, Daphne, la pianta rarissima e misteriosa che Vanni ha scoperto e riportato da uno dei suoi viaggi. Come per altri un figlio, Daphne è di Vanni la creatura, la foce verso cui tutta la sua esistenza di ricercatore inconsapevolmente si è diretta. Non a caso, è proprio tornando da quell’ultimo viaggio che Vanni ha avvertito le prime avvisaglie della malattia che lo condanna. Alla pianta, sconosciuta al mondo accademico, ma non a lui, che ne ha ritrovato descrizione e proprietà nell’unico, prezioso volume di uno studioso del ‘600, dà un curioso nome, Daphne Giovannina del Borneo, unendo così al proprio nome quello della ninfa ricordata per aver sedotto lo stesso dio Apollo. E quella pianta, del cui segreto fatale è gelosissimo custode, Vanni affida alle cure trepide di Rosa. Ecco che così la metafora mistica ricompone una sorta di profana ‘sacra famiglia’ formata da Vanni, stesso, Rosa e quella creatura che col suo potente veleno può schiudere le porte del mistero e dell’eterno. In questo menage consolidato, in cui la malattia paralizzando il corpo, ha imprigionato la curiosità e la fantasia del ricercatore e chiuso la porta del futuro, ecco irrompere l’ex allieva Sibilla. È lei a schiudergli la strada del ‘nostos’, il ritorno ad un sogno, alla mitizzata Thailandia, in cui l’allieva lo aveva accompagnato per un viaggio di ricerca, all’amore alluso che aveva segnato quella stagione della vita. Soltanto ora Giovanni è davvero pronto ad incamminarsi verso la fine. Abbandonato a sinistra il suo letto, il suo violino appeso al chiodo, Vanni si volge, nel simbolico spazio scenico, a destra, a quella finestra aperta verso il sogno, verso le voci di un temporale, metafora dell’ultimo tumulto della passione. Ed è alla ragazza che chiederà come primo e ultimo dono, escludendo Rosa dal loro segreto, di porgergli ‘con mano gentile’ la fogliolina apicale della pianta, quella che porta più concentrato in un’unica stilla il liquore che potrà traghettarlo senza dolore verso il mistero. Verso quel Dio bonario e fino a quel momento poco frequentato, che lo prenderà per mano e saprà fargli comprendere in un attimo (“vedi Vannino era tutto qui”) il senso dell’inconoscibile. Esita Sibilla, recalcitra di fronte a quell’altissimo drammatico compito che il suo ex professore vuole affidarle, ma quando dopo una notte di travaglio capisce di non poter attendere oltre, uditi i rintocchi del mattutino, bevuto l’ultimo Barolo del ’64, accetta in silenzio. Mentre dalla porta di sinistra già sta per irrompere la realtà tragica della fine metaforizzata nell’ambulanza chiamata da Rosa, Giovanni si rivolge a destra per ricevere dalle mani amorose di Sibilla la sua ‘comunione’. Inutile ormai il rammarico di Rosa, che, presente tutta la vita per il fratello, manca al momento estremo. Ma, per non tradirne la volontà, farà il sacrificio supremo, rinuncerà all’ultima illusione di una vita ‘normale’ accanto alla figlia lontana e ai nipotini, per restare a custodirne la memoria nella sua’chiesa’, in quella casa divenuta adesso davvero tempio.

Al di là della metafora religiosa in cui l’autore, Vittorio Franceschi, involge un tema di tanto dibattuta attualità, centrale resta la percezione di una sorta di ‘amor de lonh’ inappagato a raggiungere il quale non sono sufficienti né la scienza cui Vanni si è consacrato né la pia accettazione di Rosa. Bravi gli interpreti tutti: Franceschi stesso che dà corpo al sorridente cinismo di Vanni, Laura Gambarin nei panni della misteriosa Sibilla e Rosa, indimenticabile scrigno di umanità nel fagotto grigio della vestaglia e delle calze di lana, stigmatizzata dal suo ‘naso a patata’ che impedendole di essere amata come donna l’ha consegnata al ruolo di ‘madre’. A lei ha dato voce, volto e calore Laura Curino.

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