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Il paese dei castelli di sabbia

Il paese dei castelli di sabbia
Agosto 16
13:27 2012

s-vulcanoE alla fine dalla bocca del vulcano cominciava ad eruttare un denso fumo grigio, assieme a piccoli lapilli che volavano via nel vento, e l’odore dolciastro di carta bruciata si mischiava a quello salmastro delle alghe che erano finite inevitabilmente nel cratere assieme a resti di granchietti, stecchini di gelato, ossi di seppia, scheletri di stelle marine. Si perché io avevo diligentemente raccolto qualunque cosa potesse alimentare quel miracoloso evento che era l’eruzione di un vero vulcano sotto i miei occhi di bambino, e a quell’epoca sulla riva si potevano ancora trovare granchi, ossi di seppia, stelle di mare e persino ippocampi, quei buffi cavallucci marini che credo i miei figli non abbiano mai visto se non in qualche documentario di Quark. E poi c’erano quelle strane pallette di alghe, dalla consistenza di paglia pressata, che si formavano misteriosamente sulla battigia non ho mai capito per opera di quale fata notturna.

E poi c’erano le pulci di mare, minuscoli animali che saltellavano allegri tutt’attorno a me e a mio padre, cercando di evitare le fauci bollenti del vulcano. Papà aveva lavorato parecchio di mani ad ammucchiare e pressare ben bene la sabbia umida per formare il “Vesuvio” come noi lo chiamavamo, una montagna che a me, allora poco più che un bimbetto, arrivava all’ombelico, mentre io col secchiello continuavo a versare acqua sui fianchi per renderlo compatto e robusto. Quindi aveva infilato una canna sulla sommità, facendola penetrare a fondo fino alla base, per poi cominciare a scavare l’antro, rigorosamente a favore di vento, dove ammucchiare tutto il combustibile raccolto. Alla fine aveva preso i fiammiferi, strumento di delizie a me precluso, e aveva dato fuoco al tutto. E sotto i miei occhi il litorale di Torvajanica si era trasformato in una misteriosa isola dei Caraibi, dominata da un imperioso e terrificante vulcano, pronto a ribollire ed esplodere tra minacciose volute di fumo e lingue di fiamme che sprigionavano dalle sue fauci. E tutt’attorno io e gli altri bambini innalzavamo grida tribali, saltando e ballando come piccoli indigeni di fronte a quella Divinità. Poi, a gioco finito, si buttavano alcune secchiellate di acqua nel cratere per assicurarsi che tutto fosse spento nella pancia della montagna, e poi si scatenava l’ultimo atto di puro piacere: saltare a piedi pari sul mucchio di sabbia fino a ridurlo un ammasso informe, che le onde della marea montante avrebbero lentamente spianato quando nel pomeriggio le ombre si sarebbero allungate sulla spiaggia. Oggi su quel litorale non si trovano più ossi di seppia, stelle di mare, cavallucci marini, pallette di alghe e pulci marine. Ma soprattutto provate a fare un vulcano sulla battigia ai vostri bambini. Verrete immediatamente minacciati di pesanti sanzioni da un solerte bagnino, incitato dalle signore sdraiate sotto gli ombrelloni ben allineati, che vi enumererà le cose vietate in spiaggia da apposite norme, tra cui innalzare qualunque tipo di manufatti “abusivi”, quali possono essere considerati i vulcani, le piste per le palline, e persino i castelli di sabbia. È la legge. Un paese che vieta ai bambini di fare castelli di sabbia sulla battigia… ma non lo vieta ai grandi in sedi ben più austere. Mah!

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