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Il valore dell’angoscia

Il valore dell’angoscia
Agosto 01
02:00 2008

Kierkegaard e HeideggerEmblematico del passaggio dalla Fenomenologia all’Esistenzialismo, il filosofo Martin Heidegger concepisce l’uomo come un ente che si interroga sul senso dell’essere mentre si sceglie, decide di conquistarsi o perdersi. Distingue l’essere dall’Esser-ci, l’ente che, situato nel mondo, è in rapporto attivo con esso e afferma che l’esistenza non è un’essenza, un dato della natura, come era per Husserl: ex-sistere, cioè uscir fuori verso una decisione, è incertezza, rischio, continuo poter-essere. Le correnti dell’Esistenzialismo, per cui l’esistenza è possibilità in rapporto con la trascendenza dell’essere, si dividono per la concezione di questo, il quid verso cui si pone lo slancio in avanti dell’uomo: Dio, il mondo, se stesso, la libertà, il nulla. Di fronte alla “deiezione” o caduta dell’uomo sul piano delle cose del mondo, la “voce della coscienza” per Heidegger riporta l’uomo a se stesso, all’accettazione della propria finitezza.

Tra tutte le possibilità, quella della morte è l’unica alla quale l’uomo non può sfuggire. L’esperienza del possibile nulla degli enti avviene attraverso il sentimento dell’angoscia come senso della minaccia radicale e della presenza del nulla e solo con essa l’uomo si pone davanti al nonsenso dei progetti umani. Esistere in modo autentico significa avere il coraggio di guardare in faccia alla possibilità del proprio non essere, di sentire “l’angoscia dell’essere-per-la-morte”, cercare il senso dell’essere, dell’esistere degli enti (piano “ontologico” o “esistenziale”), mentre l’esistenza inautentica implica la paura dell’angoscia di fronte alla morte e pone attenzione ai fatti, che si riduce al vuoto di chiacchiere, equivoci, e utilizza il linguaggio del soggetto impersonale (piano “ontico” o “esistensivo”). Karl Jaspers, altro grande pensatore dell’Esistenzialismo tedesco, vede nella filosofia l’illuminazione-della-esistenza, un pensare in cui non viene conosciuto nulla di universalmente valido, ma che porta l’uomo alla coscienza di sé. La possibilità di essere dell’esistenza non è strumento di alternative: l’unica scelta autentica è la consapevolezza e l’accettazione della situazione in cui si è. Il concetto novecentesco di esistenza autentica richiama alla mente il pensiero del filosofo ottocentesco Kierkegaard, secondo cui l’essere cristiano è l’inquietudine più alta dello spirito e l’esistenza è possibilità di non scegliere, restare nella paralisi, o scegliere e perdersi. La fede è angoscia di fronte a Dio come possibilità infinita e il Cristianesimo è scuola della sofferenza: per mezzo della verità cristiana l’uomo si libera dalle cose umane. Se l’angoscia inerisce il rapporto dell’uomo con il mondo, la disperazione è la colpa dell’uomo che non si vuole accettare dalle mani di Dio: talvolta vuole essere se stesso al punto da trasformarsi in Dio, talaltra esce e si distrae da sé; essa è la malattia mortale, un eterno morire senza morire, è vivere la morte dell’io. L’uomo scambia la possibilità per presunzione, che lo porta a lamentarsi della vita e della Provvidenza. L’educazione mediante la possibilità porta a comprendere che l’uomo non può pretendere nulla dalla vita e che la perdizione è sempre alle porte. Da qui l’importanza dell’umiltà e della “sapienza dello spirito, la più umile di tutte e l’unica certezza”. L’intera esistenza appare un viaggio per la conquista della dignità, che per Heidigger consiste nel far da guardia alla verità dell’essere.

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