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Un animale in giacca e cravatta

Un animale in giacca e cravatta
Giugno 10
02:00 2007

La brasiliana Elena Valero fu rapita a undici anni dai Karawetari, guerrieri Yanomame che vivevano nella foresta fra l’alto Orinoco e l’alto Rio Negro. Fu testimone oculare di razzie, nel corso delle quali furono trucidati barbaramente molti bambini, come riferì nelle sue testimonianze: “…gli uomini cominciarono a uccidere i bambini; i piccoli, i più grandi, ne uccisero molti. Cercarono di scappare ma [i Karawetari] li raggiunsero, li buttarono a terra, li colpirono con frecce che ne trapassavano il corpo e li inchiodavano al suolo. Prendendo i più piccoli per i piedi, li sbattevano contro gli alberi e le rocce. Gli occhi dei bambini tremavano. Allora gli uomini presero i cadaveri e li gettarono tra le rupi.” 1
Gli antropologi spiegano questi episodi di violenza sui bambini con l’inconscia volontà di affermazione della linea genealogica dei membri di una tribù o di un gruppo etnico su quella di gruppi diversi, eliminando i potenziali antagonisti. Comunque si voglia interpretare, è però certo che questo agghiacciante scenario di inaudita violenza non è un brutto quadro appartenente a un passato remoto che non ci riguarda più. Questa e altre testimonianze di Elena Valero, rese con termini non più attuali rimangono purtroppo, invece, ancora attuali nei contenuti. Il comportamento odierno dell’uomo è ancora marchiato e macchiato da forme di estrema violenza fisica e verbale, che sostanzialmente sono identiche a quelle che lo caratterizzava in epoche assai lontane e tribali da cui, erroneamente, pensiamo di esserci ormai distaccati. La crudeltà delle razzie dei guerrieri Yanomame si è riproposta puntualmente nel corso della storia umana, nelle moderne stragi più o meno legalizzate, che vanno dallo sterminio degli ebrei alla cinica e inutile ecatombe nucleare di Hiroshima e Nagasaki2, ai recenti genocidi consumati in troppe parti del mondo in nome di crudeli e assurdi integralismi religiosi e razziali, alle guerre imperialiste americane in Afganistan e Irak.
Ma l’obbedienza cieca all’istinto della procreazione sembra essere alla radice di molti altri comportamenti dell’uomo, che, all’opposto di quello precedente, non sono violenti essendo afferenti la sfera dell’amore.
E’ noto a tutti che l’offerta di cibo e musica sono gli ingredienti universali di un invito a cena nella fase di corteggiamento dell’uomo verso la donna, ma è meno noto che sono comuni anche agli animali. I maschi di molti uccelli offrono piccole prede alle femmine che corteggiano; ugualmente fanno molti insetti e gli scimpanzè maschi. La “nutrizione di corteggiamento” ha una valenza riproduttiva: la femmina, ricevendo in dono il cibo, è rassicurata sull’abilità del maschio a procacciare cibo per lei e la futura prole, inconsciamente vede in lui un compagno valido per l’accoppiamento. E la musica, che un bravo corteggiatore non fa mai mancare nei suoi incontri galanti, in che modo può riguardare gli animali? La risposta è nelle notti d’estate, nelle campagne o nei boschi, invasi dalle sinfonie dei mille versi degli animali in calore.
Gli innamorati trovano nel ballo un motivo di eccitazione, ma non sanno che ripercorrono, in versione umana, il rito propiziatore delle danze amorose di molte specie animali.
Perché gli uomini, in genere, apprezzano nella donna più la bellezza e le qualità fisiche ‘femminili’, mentre le donne sono più interessate, nell’uomo, ad aspetti ‘sociali’, quali il benessere economico, la posizione lavorativa, il potere? Perché le donne difficilmente s’innamorano di un “falegname poetico”, come osserva l’antropologa Helen E. Fisher, e invece molto più facilmente s’innamorano perdutamente di un ricco uomo d’affari poco poetico? La risposta è sempre la stessa: l’istintivo ossequio alla legge naturale della riproduzione. L’uomo cerca nella donna le qualità fisiche ottimali per assicurargli una buona discendenza, mentre la donna sceglie il compagno più affidabile per il sostentamento proprio e della prole che verrà.
L’amore è eterno? L’amore inteso come eros sicuramente no. Molte indagini statistiche3 mostrano che l’infatuazione amorosa (l’amore come eros, e non come agape o philia 4) ha una durata di 2-3 anni. Anche in questo caso esiste una spiegazione naturalistica. Lo psichiatra Michael Liebowitz afferma che tale durata è dovuta all’incapacità da parte del cervello di permanere a lungo nello stato di eccitazione che contribuisce all’infatuazione amorosa e che è provocato dalla saturazione dei neuroni del sistema limbico da parte di un neurotrasmettitore, la molecola feniletilamina (FEA), che è un forte stimolante in grado di ‘drogare’ il cervello. Insomma, l’infatuazione amorosa è uno stato di equilibrio instabile che pertanto è destinato, per legge naturale, ad essere sostituito da un nuovo stato di equilibrio chimico stabile: l’attaccamento, che sarebbe dovuto, chimicamente, alle endorfine, oppiacei in grado di ridurre l’ansia e l’eccitazione prodotte dalla FEA.
Si potrebbe andare avanti, esaminando altri aspetti del comportamento umano legati all’amore (adulterio, propensione delle donne verso la monoandria e degli uomini per la poliginia) che, secondo alcune interpretazioni antropologiche, sarebbero anch’essi fortemente condizionati dalle differenze nelle caratteristiche riproduttive fra il maschio e la femmina: gli uomini, accoppiandosi con più donne, diffonderebbero maggiormente i loro geni, mentre le donne, non potendo avere le stesse possibilità numeriche di riproduzione dell’uomo, non sarebbero interessate ad avere più uomini contemporaneamente5.
Il ritratto dell’uomo che esce dal pennello dell’antropologo mette, dunque, in mostra un ‘animale in giacca e cravatta’, creatura troppo imperfetta per poter assomigliare a Dio, a meno di non modificare l’idea stessa di Dio, pensandolo imperfetto. Molte analisi e conclusioni dell’antropologia etologica tendono, infatti, a ricondurre i comportamenti umani di base alla sfera animale, dove il leit motiv dell’esistenza è il dovere di procreare e provvedere alla prole nel migliore dei modi. Perché la natura ha impresso in tutti i viventi questo ‘dovere’ irrinunciabile, che plasma ogni momento della loro vita e la loro stessa evoluzione? Il fine ultimo può essere la sopravvivenza in sé, assicurata dalla procreazione? Si potrebbe rispondere che un fine non è necessario, ma allora perché lo sarebbe, invece, il ‘dovere di procreare’? A questa domanda l’antropologia non risponde.
La natura è tutt’altro che perfetta e assecondarla non sempre è conveniente e giusto. Accanto ad esseri dotati di grande bellezza crea esseri brutti, malformati, malati. E da molte malattie non si guarisce spontaneamente. La natura condanna quasi tutti, per esempio, a non vedere più bene dopo una certa età e alla frustrazione dei meno dotati (di forze fisiche, di bellezza, d’intelligenza, …..) nei riguardi dei più dotati. L’intervento dell’homo sapiens, con la sua cultura, che è un prodotto dell’evoluzione, in questi casi è correttivo degli errori della natura, ovvero delle sue devianze da comportamenti e funzionalità ritenuti corretti. L’evoluzionismo sembrerebbe, allora, avere come fine il perfezionamento di una natura originariamente imperfetta, correggendone le sue lacune di bene ( “privatio boni” , diceva Agostino d’Ippona), che sono il ‘male’. In tal senso, un creazionista evoluzionista potrebbe pensare che l’evoluzionismo sia lo strumento creato da Dio per condurci a Lui, sommo bene e somma perfezione. Ma perché Dio, per condurci a Lui, ci farebbe compiere questo lungo viaggio? La cultura, figlia dell’evoluzione dell’uomo, non può più essere intesa come qualcosa di ‘artificiale’, cioè ‘fuori della natura’. ‘Culturale’ sarebbe il prodotto dell’uomo, in contrapposizione a ‘naturale’, che è il prodotto della natura. Ma l’uomo stesso è natura, e allora dovremmo ammettere che dal ‘naturale’ possa generarsi il ‘non-naturale’? Ha mai costruito l’uomo qualcosa che non obbedisca alle stesse leggi che chiama ‘naturali’? Non sarebbe più logico considerare la cultura come qualcosa di ‘naturale non originariamente espresso’, che si esprime con l’evoluzione dell’uomo ed è in grado di modificare la natura preesistente, dunque lo strumento voluto dalla Natura stessa per modificarsi ?

—————
1. E. Biocca, Yanoama, Dutton, New York 1971, pp. 34-35
2. Utile soltanto agli USA per affermare la loro supremazia militare nel mondo.
3. Helen E. Fisher , L’anatomia dell’amore, Longanesi, Milano 1993, p. 54
4. Per le differenze fra eros, agape e philia vedi l’enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est.
5. Il record di figli generati da un uomo è 888 e appartiene all’imperatore del Marocco Moulay Ismail; il record di figli avuti da una donna è invece 69 (con molti parti multipli) e appartiene ad una russa.

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