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Elogio dell’ignoranza

Aprile 16
22:00 2015

Illustrazione di Gustave DorèLa domanda classica che chiunque potrebbe porsi è se l’ignoranza sia una connotazione della personalità caratterizzata da una valenza positiva o negativa. In effetti, si può indicare come negativa quando è intrisa di stupidità, saccenteria o semplicemente si accetta, evitando di porvi rimedio; mentre come positiva quando il soggetto utilizza il raziocinio, l’informazione e lo studio per approcciare ciò che non conosce. Per Socrate l’ignoranza è un dato di fatto: “So di non sapere”. Questa è la sua definizione d’ignoranza riportata nell'”Apologia di Socrate” di Platone. Una constatazione “ragionata”; neutra. Per Luciano di Samosata è invece una condotta essenzialmente negativa.

Infatti, egli la intende come non conoscenza del reale dalla quale deriva un non sapersi districare nel mondo e pertanto implica effetti negativi per sé e per chi ci sta attorno. Nell’opera “Come difendersi dalla calunnia”, Luciano di Samosata la definisce addirittura un “vero flagello”; un “demone tragico”; “una nebbia sugli eventi” che ispira l’uomo ad azioni turpi come la calunnia. Principalmente la paura dell’altro, del suo giudizio o del problema da affrontare. Ciò non vuol dire che la paura sia solo generatrice di fattori negativi; infatti, nella sua accezione positiva, essa può significare anche maggior accortezza. Il problema è che qui ha una funzione negativa da intendere nel senso di rifiuto della relazione. Pertanto, intendendola in senso negativo, potremmo dire che l’ignoranza genera la paura e questa a sua volta la calunnia poiché quest’ultima è lo strumento di tutela contro l’ignoranza stessa. Con la calunnia si rifiuta il confronto e si tutela la propria persona da possibili “figuracce”. Strumento estremo di autodifesa; anche se è proprio per tale atteggiamento che ci si mostra ignoranti! Ora, Intendendola invece nel senso positivo, essa si presenta come una non conoscenza su di un elemento, ente o dimensione della realtà, ma è altrettanto vero che chi su ciò che è celato, “oscuro”, applica un metodo d’indagine, può illuminare l’oscurità stessa. A questo punto però non si è più ignoranti. Pertanto il vero ignorante come si desume dal pensiero socratico è chi non ragiona; chi non osserva; chi non riflette su quanto osservato e soprattutto chi non sa instaurare un confronto utile per iniziare a ragionare. Infatti, Socrate non è ignorante per il solo fatto di aver scoperto e accettato l’ignoranza stessa e perché ha cercato, tramite un dialogo razionale, di venirne a capo. A questo punto però siamo entrati in un altro campo, ossia quello della conoscenza o comunque dello studio della realtà. E che c’entra la conoscenza con l’ignoranza? C’entra perché senza il negativo spesso non si “vede”, a volte non si prende coscienza e non si definisce e tutela il positivo. Ossia la conoscenza stessa. Infatti, l’ignoranza nel Mondo in cui viviamo è una costante, seppur entro certi limiti variabili e anche soggettivi. Si può estendere o restringere in base alle epoche storiche ma mai eliminare del tutto. A maggior ragione se si presuppone che l’universo è infinito, che il fattore memoria gioca brutti scherzi, e che l’essere è limitato dal tempo. Da qui la deduzione che essa vada accettata perché insita nell’uomo. Non accettarla sarebbe da veri ignoranti; mentre, accogliendola, l’unico antidoto è affrontarla. Nell’illustrazione del Grande Gustave Dorè riportata in questa nota, possiamo avere uno spaccato delle due forme d’ignoranza: una accettata con le conseguenze che comporta, ossia la paura di non capire ciò che è capitato; l’altra un approccio metodico da studioso che cerca di capire e risolvere il problema. Per questo motivo Luciano di Samosata la vede come negativa; poiché chi la detiene non cerca di liberarsene ma anzi possiamo dire che il soggetto accoglie dentro di sé due “realtà” negative: l’ignoranza e la paura di ciò che gli è capitato dalla suddetta generata. In realtà, chi si rivolge ad altri per consigli non è per niente ignorante. Adotta un metodo consultivo per venire a capo del problema. In definitiva, intesa nel senso positivo, essa comporta un metodo che si rivolge alla stessa per affrontarla. Detto questo, prendiamo pertanto come presupposto l’approccio positivo dell’ignoranza e dedichiamoci alla semplice considerazione di fatto che comunque essa (l’ignoranza!) può essere intesa come forma di STUPORE. Mi stupisco di ciò che ignoro ma che mi accingo a conoscere. Entro in una dimensione, studio una determinata materia in un libro o osservo un ente i cui elementi non conosco, almeno non tutti, e mi accingo a farlo. A questo punto però dobbiamo capire se il verbo stupire va inteso nel senso di essere stupito quando ci si pone di fronte a ciò che non si conosce; oppure nel momento in cui si è svelata a noi la conoscenza. Tale questione è apparente se partiamo dal fatto di voler conoscere. Certo, venire a capo di un problema genera gioia per il risultato che siamo riusciti a raggiungere, e ciò non va negato; ma comunque l’importante è che l’ignoranza assuma tale funzione. Ossia quella di stupirci di fronte a ciò che non conosciamo e che ci accingiamo a “svelare”. Se così intesa questo di positivo porta l’ignoranza. Ed è a questa sua qualità implicante una delle emozioni più belle e spontanee che va fatto pertanto l’elogio. Elogio di cosa? Elogio di stupire! Di cosa altrimenti?

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