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IRINA

Luglio 06
23:00 2007

“… bambini in carrozzina, già con le stimmate del loro opaco futuro: direttori, professori, soprattutto mariti e padri… e tutta questa gente deve mangiare, far l’amore, litigare, desiderare…
…e pensare che questa farsa durerà ancora miliardi di anni, dicono”
Ennio Flaiano, Diario degli errori, 1967.

Irina si sfilò svogliatamente e stancamente il collant e stancamente e svogliatamente lo appoggiò sulla spalliera della sedia. Squillò il telefono, insistente.
“A France’, so’ Nicola… a che ora passo a piatte, so’ quasi le sette e un quarto, chissà che casino che c’è sul Raccordo!!!”
Irina sbadigliò, ruttò – maledetta porchetta, maledetta Nastro Azzurro – e disse:

“… Macchiccazzo sei?
Maccheccazzo voi?
Maccheccazzodenumero hai fatto?
E lascia dormi’ la gente, ciecato!”

Il tono della voce dall’altra parte della cornetta intimorì, bisbigliò alcune goffe parole di scusa ed attaccò il telefono rapidamente. Nicola Baggini, pendolare, avrebbe rifatto il numero del collega e compagno di viaggio, il ragionier Francesco Piepoli, con molta, molta più attenzione.
Il rubinetto del lavandino gocciava, insistentemente – ciaf, ciaf, ciaf – sui piatti sporchi della sera prima.
“Se Antonio non me lo ripara entro domenica” – pensò Irina – “dovrò chiamare l’idraulico… questo rumore mi ha proprio stufata, ho un mal di testa e la bocca impastata, che schifo”.
Antonio era un poliziotto calabrese, era il suo uomo, era il suo pappa, “Beh, no, non proprio un pappa, un protettore, un amico…” Dividevano insieme, spendevano insieme, i soldi che Irina guadagnava la notte, fra ristoranti, bei vestiti, orologi e belle macchine. No, la droga no, Antonio gliel’aveva offerta varie volte, specie dopo che avevano bevuto un po’ o dopo l’amore, quando le proponeva anche di giocare con qualche ragazzina “l’omo è omo, so’ giovani, so’ arbanesi, te piacerà pure a te, magari diventi normale”, ma Irina era contraria:
“Ma tu, pecchì m’hai preso?
La droga è er diavolo, te massacra, te rovina pure la pelle! Già so’ tutta ‘na ruga…”
Chi li sentiva, in queste buffe discussioni, al bar, o al ristorante, rideva: il romanesco del poliziotto calabrese non era più realistico di quello effemminato e spagnoleggiante di Irina, sembravano un cartone animato accelerato..

Antonio aveva conosciuto Irina in una retata, l’aveva arrestata dopo una rissa con due puttane somale, sulla Colombo, verso l’una di notte. Le ragazze discutevano per il posto, sotto un grande cartellone che pubblicizzava l’ultima spider della BMW, poi erano volate le parole grosse, gli insulti, le borsette e le scarpe con i tacchi giganteschi… e le botte, le urla, i vestiti e le calze strappate… una rissa.
Proprio quando Irina si era vista a mal partito, quando si era sentita nella merda, nel momento in cui quella zoccola di negra la teneva, mentre quell’altra vacca, sembrava una scimmia, e brutta, la prendeva a calci sulle palle, era arrivato il suo salvatore: bello come un angelo, sembrava Michele Placido, solo un po’ più basso, giovane, moro, sanguigno, era sceso dall’Alfa e si era messo fra le tre donne, le aveva separate, aveva cazziato le nere ed aveva cominciato a consolare Irina che, delle tre, era assolutamente la più bella. Certo, poi, dopo, in caserma, si era fatto fare anche un pompino – anzi, un signor pompino, come disse lui – una specie di premio, e, dando prova di un inatteso, in un calabrese, senso dell’umorismo, l’aveva blandita con un “La giusta ricompensa per averti salvato le palle ed il culo”.
Per Irina, però, quello non fu assolutamente solo un dovere, anzi, un grande, riconoscente e speranzoso piacere:
“Chissà, è proprio un bell’uomo, vedremo…”
Questo succedeva quasi cinque anni prima, poi cominciarono a dormire assieme, a fare l’amore.
Lei era sempre stata la figlia preferita, la madre la vestiva sempre da donna, era carina, affettuosa, non aveva neanche il complesso del cazzo, non le dava poi tanto fastidio quel piccolo pezzo di carne fra le gambe, non aveva mai pensato di farsi operare, di farsi mettere le mani addosso da un chirurgo -“O, madre mia!”.
Si accarezzò fra le gambe, dentro le mutande di pizzo bianco, guardandosi allo specchio.
Irina Montero Diaz, l’unico travestito cubano con un nome russo.
Chissà a chi era venuto in mente di chiamarla così?
Chissà chi aveva suggerito, un giorno, alla madre, al posto di Miguel, di chiamarla Irina; forse un marinaio russo, magari un soldato, in quegli anni c’erano i russi a Cuba.
Irina aveva passato anni sognando di questo suo padre che non aveva mai conosciuto, come tutti i figli di puttana, come Cenerentola. Forse, invece, era stata solo una qualche schifosa infermiera, o un viscido ubriacone che si era trombato la madre sbronza, a suggerire quel nome impronunziabile, Irina, che le sue amiche non riuscivano nemmeno a dire e che era tanto difficile da far capire ai clienti: “Sì, se devo cerca’ ‘na Irina, ‘na Mascia, ‘na Natascia, o ‘na Katiuscia, me ne vado a Mosca… costano morto meno de te, so’ più giovani e più belle!!! ‘N’amico mio ce va tutti l’anni, a Mosca….. “
Irina nemmeno li sentiva, quando rompevano lei si metteva una gomma in bocca, per l’alito, per il fiato, per il puzzo di cadavere, e pensava ad Antonio, al suo Antonio, bello e forte, sì in po’ basso, scorreggione, ma così tenero con lei, quasi nemmeno ci credeva che stesse con lei per i soldi, a volte pensava: “Sì, vabbe’, però mi vuole bene, ed è così bello svegliarsi assieme, la domenica, quando non ha il turno in caserma…”
Sì guardò ancora allo specchio, in penombra. La luce del mattino filtrava attraverso la serranda, era sabato mattina, poco più dell’alba, ” …ma proprio un cazzo di stronzo che lavora pure il sabato” – pensò, ridendo fra sé – “doveva sbaja’ er nummero?”
Si accarezzò, non c’era molta luce, e lo sguardo le cadde, con stupore, paura, avvilimento, sui suoi seni, non più floridi, scesi “silicone del cazzo, medici del cazzo, troie” e la sua pancia gonfia, “una donna con le perenni mestruazioni, e senza essere nemmeno una donna, merda!”

E l’abbronzatura: “…delle squame, più che delle macchie, ormai…”
“Abbronzati con due sole sedute, lettini solari, UVA…”.
Le parole della pubblicità. Il depliant che aveva trovato nella cassetta della posta, assieme alla promozione “estate” del mobilificio Aventino ed al listino prezzi della SMA, non diceva che, poi, vengono le squame, che ti bruci viva, che ti fanno arrosto in due trattamenti da tre quarti d’ora scarsi, altro che cancro della pelle, melanoma, qui si trattava di finire come Giovanna d’Arco, arsa viva, bruciata… sorrise ancora, era la figlia buona, affettuosa lei, si ricordò che, se oggi era sabato, domani era domenica e questo le piacque – una risata risuonò nella stanza – il suo Antonio poliziotto non ci sarebbe stato – è di turno, cazzo – ma a Capocotta, la spiaggia dei nudisti e dei travestiti di Ostia, con le sue amiche, con Francisca che si era comprata un nuovo tanga, striato, bianco e nero, zebrato, per festeggiare l’operazione al cazzo – l’ha tagliato – e la plastica al naso – ha tagliato anche quello, lo ha fatto alla francese, in su – a Capocotta sì, che si sarebbe divertita…
Avrebbe preso il sole, affittato il lettino, Barbra le avrebbe spalmato la crema solare, e con un po’ di abbronzatura naturale anche la pancia, lo stomaco, sarebbe sembrato più sgonfio, ed i seni, poi, c’era quel marocchino, Kaled, quello che vendeva occhiali e parei che non le levava gli occhi dai seni, dai capezzoli, occhi belli, uno sguardo profondo… “sembrava cotto di me, dei miei bellissimi capelli rossi, ricci…”
“…Quella stronza di Barbra ha detto che lo sguardo di Kaled non era bello, non era profondo, era solo affamato, povero, disperato… non credo, quando abbiamo mangiato insieme, al capanno, sulla spiaggia, lui non aveva soldi, ho pagato io, il risotto alla pescatora e poi, dopo, una bistecca, una gran bella fetta di carne in riva al mare, e tante patate, e pane, pane, pane, quanto ne prendeva, e che tenerezza, ma poi, dopo, fra le dune, stare insieme, noi due, è stato bellissimo, dolcissimo, mi sentivo una ragazzina mentre gli accarezzavo i capelli, mentre passavo la mia mano sulla sua schiena forte, possente, protettiva…
E poi a Capocotta verrà anche Iramar, con i suoi due cani… è bellissimo giocarci sulla spiaggia, ho fatto anche amicizia con una ragazza, bella, un po’ triste, Annalisa, una scrittrice, lei ha un bassotto, “Silvio”, come Berlusconi, mi ha raccontato che lo ha chiamato così per potergli dare i comandi con più gusto, senza sentirsi in colpa…
Il cane ha paura dell’acqua, tu gli tiri le cose in mare, lui corre, corre, corre, le cerca e le trova… poi, improvvisamente, si accorge di essere ormai nell’acqua e, tutto spaventato, torna a terra, sulla spiaggia, di corsa, tremante…
Forse è solo cretino?

… a proposito di cretini, che fine ha fatto Tonto?

… Tonto è il mio gatto, è il gatto più tonto del quartiere, ogni tanto esce in balcone e cade di sotto, ma io gli voglio bene e, per sua fortuna, abito al primo piano. Sennò, addio Tonto!!!”

Irina si calò le mutande di pizzo, guardò schifata il lavandino in cucina, le posate sporche, unte, la lunga fila di formiche nere che, venendo chissà da dove, facevano un corteo, una processione lungo lo stipite del muro e pensò:
“Che schifo!!! Quando faccio riparare il rubinetto metto anche le finestre in alluminio, alla faccia delle formiche… io tutto il giorno, tutta la notte, tutte le notti, a farmi fare un culo così, e loro a fare i cortei per casa mia, le manifestazioni… o, mio Dio, le formiche comuniste in casa… fuori da casa mia, maledette rosse, prima o poi vi affogo…” e nel pensare questo prese la cannella dell’acqua, quella di plastica bianca attaccata al rubinetto, e si mise a giocare a “Niagara”, ridendo di sé e della propria stupida, infantile idiozia… quando faceva così Irina sembrava anche bella, una bambina invecchiata troppo presto o una vecchia ancora giovane, ma il suo sguardo, quando rideva così, e le succedeva solo se era sola, o con Tonto, o con i cani con cui giocava, era veramente bello, cerchiato, stanco, ma bello.

Il sapore in bocca era schifoso, non c’erano caramelle che potessero aiutarla.
“Sperma… che schifo lo sperma… e che schifo gli uomini… lo sperma non se ne va, ti resta in bocca come colla, mi sembra di aver passato la notte a leccare una saponetta o il fondo del barattolo della Coccoina, di aver bevuto il Vinavil a canna… passano gli anni e ancora non riesco a capire come non gli faccio schifo, a questi porci… eppure dovrei puzzare, dovrei puzzare di sperma, io me lo sento dappertutto.. nei capelli, nei vestiti, nelle orecchie, che schifo… adesso mi faccio una doccia, mi lavo col bicarbonato…
E invece no, non gli faccio schifo, quasi si eccitano, è come se scopassero tra loro, due uomini che fottono un terzo uomo, ognuno eccitato dall’idea del precedente frocio…
Io, ormai, non riesco neanche a bere la batida, il cocco mi fa orrore e loro… c’era quel porco stanotte, saranno state le tre… quello con la vecchia Cinquecento. A me sulle Cinquecento già non piace salire, sanno di muffa, di tappetini sporchi, di metallo arrugginito, di carrozzerie ammaccate, e poi lui era orribile, uno di fuori, dei Castelli, un pidocchioso… aveva mangiato pesante, aglio, e si sentiva.
E poi era sporco, si è messo a tirare sul prezzo, trentamila per un pompino, ed io, io puzzavo, mi puzzavo addosso, puzzavo da morire… come sono salita in macchina stavo per vomitare, un tanfo… sembrava che avesse un gatto morto sul sedile posteriore, o forse il cadavere della povera Marta Russo, con tanto di Alletto, Scattone, Ferraro e Liparota, tutti, tutti sul sedile di dietro, tutti a puzzare… ed io stavo lì, stavo per vomitare, o per dirgli ti faccio una pippa, gratis, ma ti prego, ti prego, ti prego, fammi scendere, se scendiamo te ne faccio due, tre, quelle che vuoi, prego la Madonna e mi faccio venire per miracolo la fica…
Poi, per fortuna, se ne è venuto, che schifo, ha fatto tutto lui, da solo, io potevo anche non esserci, me ne potevo pure anna’ a raccoje’ la cicoria…
Se lo ficcava in un ber buco nel muro sentiva e godeva di più, e spenneva pure de meno… ma il lavoro è lavoro e quindi…
Quanno so’ scesa dalla macchina mi ha anche detto che mi cercherà ancora, io ho riso, ridevo di lui, della situazione, del tanfo di gatto morto, e lui non ha capito, non ha capito niente, è stato contento, ha detto «Devo correre, mi aspettano a casa, sai… mia moglie… ma ritornerò a cercarti, come ti chiami, tesoro?
Fra un’alitata e l’altra, mi chiamava Principessa».

“Sì, Principessa, Principessa del cazzo…
Secondo me, non si è neanche accorto che sono un uomo, che ho il pesce, era troppo distratto ad ammirare il miracolo del suo cazzo che si rizzava, è uno spettacolo a cui non deve essere abituato, ma che ci volete fare, io ho molto fascino…”

Gli ho cinguettato, affettuosa:
“Ma dolcezza, sono Irina…
Irina, la cubana russa, tutti mi conoscono”

Irina parlava spesso da sola, anche troppo spesso, ma così, nella piccola casa vuota, quasi sempre vuota, si faceva molta compagnia.
Entrò nel bagno, si lavò due volte i denti, cominciò a far scorrere l’acqua nella vasca, ma prima pisciò, pisciò con gusto, si liberò di tutta la Peroni che aveva in corpo, vide il suo stomaco sgonfiarsi, appiattirsi, si sentì quasi bella, e felice.
Lo sciacquone, una volta tirato, fece un casino della miseria, tremò, borbottò, un terremoto, sembrava Assisi, e Irina, subito incupita, quasi che il tremolio le arrivasse al sistema nervoso, disse:
“Che cesso di casa!
Che cesso di cesso!
Che cesso di vita!
Se quello stronzo di Antonio non si sbriga a ripararmelo, lo lascio, lo caccio via…
e un po’ di rispetto, e che cazzo!
Altro che idraulico, se Antonio non me lo ripara chiamo Kaled.
Kaled è carino, è gentile, sono sicura che saprebbe rimettere tutto in ordine in questo porcile… speriamo che domenica lo incontro al mare, perché se stiamo bene come l’ultima volta, gli chiedo se vuole venire da me, qui … alla faccia di quel calabrese di merda, di quel poliziotto di merda, di questa vita di merda!”
Si mise a ridere, si sentì un po’ pazza, si sentì un po’ felice e si sdraiò nella vasca.
Si era dimenticata il bicarbonato, i sali, ma si sentiva euforica, come se il suo lungo soliloquio le fosse bastato a sfogarsi. Prese il campioncino omaggio di bagno schiuma, trovato, anche questo, nella cassetta delle lettere, e cominciò a massaggiarsi con cura il corpo, con la morbida spugna di purissima spugna naturale che le aveva portato dalle Isole della Grecia Salvatore, il giovane figlio del portiere, un bel ragazzo sui tredici, quattordici anni, un po’ timido, ma molto ben fatto, muscoloso.
Ogni volta che Salvatore la guardava sembrava chiedersi:
“Ma chissà come si fa, con questo?
E che cosa?”
Irina, in cuor suo, sentiva che prima o poi avrebbe trovato la maniera per spiegarglielo, ed anche fatto vedere in pratica. Aspettava solo l’occasione, con fiducia, era un’ottimista.

Uscì dalla vasca, erano quasi le nove, ed accese il televisore. Trasmettevano una vecchissima lezione di ginnastica di Jane Fonda, in americano, quindici anni e quindici chili di rughe in meno, “comunque è sempre una bella donna, affascinante, e invece quel Ted Turner, il marito, il miliardario… ho visto certe foto su Novella2000….
Un mollaccione, come tutti gli americani, un flaccido… basta pensare a quel fesso di Clinton, se c’ero io, al posto di Monica Lewinsky, gli facevo un servizietto, che Hillary la mandava a Mosca, con i russi, o in Australia, con i canguri!”

A Irina non mancava la fiducia in se stessa.

Sullo schermo la Fonda, in una ridicola tuta a righe, arancione e blu, ed un gruppo di pazze esaltate quarantenni, si agitavano, al ritmo di: “one, two, three, four”.
Una voce nasale, dialettale, dell’alta Italia, finto ben educata, ripeteva: “uno, due, tre, quattro”, come un pappagallo, ma fuori sincrono. La trasmissione si interruppe, un’altra americana, la sorella gemella di Jane, la stessa età, perfino le stesse rughe e pieghe sul collo, ma con lunghi capelli neri e lisci, come Morticia Addams, pubblicizzò, con un’altra voce italiana a coprire, parimenti nasale e parimenti fuori sincrono, uno strano attrezzo a molle, un autentico strumento di tortura, per rassodare sia i glutei che gli addominali, e delle miracolose tisane messicane di erbe dimagranti.
Irina pensò:
“Prima o poi lo compro, compro tutto….
No, meglio, prima o poi torno in palestra…
No, meglio ancora, prima o poi scopo con Kaled, quella sì che è ginnastica” e si addormentò, dopo aver staccato la cornetta dal telefono, cullata dal tuuu, tuuu, tuuu e dalla voce nasale del televisore.

Verso le sette di sera si svegliò, affamata. Si infilò la sua tuta da ginnastica SergioTacchini, elegantissima, azzurro avio, e scese a fare un po’ di spesa, prima che chiudessero i negozi.
Per strada una vecchia strillava, due ragazzi le avevano strappato la borsa per scipparla, rompendole due dita.
Un cane latrava in lontananza, triste.
Irina non riuscì a capire che cosa gli avessero strappato e che cosa gli avessero rotto, ma tutta la sua solidarietà fu per il cane, la vecchia era anche brutta, ed antipatica, e puzzava, mentre Irina si sentiva profumata, bella e di classe.
Comprò due stronzate, giusto per avere qualcosa a casa per la sera dopo, pensando con terrore al chioschetto FIAT Paninoteca “er burino”, che la notte batteva le strade dove battevano le ragazze, con i panini con la porchetta d’Ariccia, i würstel con la senape, la caprese di formaggio magro, contro la cellulite e le smagliature, e, da bere, la birra Peroni o il Castellino rosé in tetrapak, “ner cartone, insomma” e, con molto più piacere, al capanno della spiaggia di Capocotta, al mare, alle amiche, al sole, ad una bella impepata di cozze, a Kaled.

Si sentiva felice e riposata.

Salì in casa, mise i croccantini nella ciotola di Tonto: “Ma chissà che fine a fatto, questo?”, si chiese, per nulla preoccupata.
Tonto era un grande gatto scopatore e lei ne era molto orgogliosa, era il vero maschio di casa. Con piacere gli cambiò l’acqua, poi telefonò ad Antonio.
Anche parlare con Antonio le piacque, fu carino, stanco – retate, scippi, rapine, allarmi – ma carino. Irina lo sentì dalla sua parte, fu quasi orgogliosa di lui, si vergognò un po’ dei pensieri fatti su Kaled, ma poi si ricordò dove stava andando, pensò all’umidità della notte, pensò al fiato puzzolente del padrone della Cinquecento, pensò alle bande di teppistelli che la notte escono di casa solo per andare a dar fastidio ai froci, ai ricchioni, ai culattoni, pensò a quanto le era costato il cellulare che aveva regalato ad Antonio – per essere più tranquilla almeno quando lavorava “Tienilo acceso, per favore… la notte” – ed al fatto che lo stronzo sembrava che le facesse un dispetto, lo faceva apposta, ad avercelo sempre, puntualmente, spento:
“Mi sono scordato, ciavevo da fa’… batterie scariche… tanto tu te la sai cavare da sola, vero… caro il mio ometto”.
Odiava quando Antonio la chiamava “ometto”.
Lo odiava.
Lo trovava più insultante, irriverente ed irritante che se l’avesse chiamata “fogna putrida e malata”. Ripensò subito a Kaled e fu contenta quando capì che a fine turno Antonio se ne sarebbe andato a dormire tutto il giorno e fu ancora più contenta di pensare alla giornata successiva, alla domenica, alla spiaggia, a Kaled.

Si fece bella.
Irina era bella.

Si vestì, “Stasera, sabato, autoreggenti, di marca, col pizzo di sangallo alto”, si mise un body di velluto nero, molto sottile, molto leggero, con l’apertura a velcro fra le cosce, all’inguine, ed una microgonna bordeaux molto corta, di paillette… il cazzo, obbediente, era praticamente scomparso.
Per essere un uomo era una proprio una gran fica.
Lo smalto, blu notte, non era neanche da ritoccare, erano tre giorni che non faceva i piatti apposta, forse anche le formiche avevano le loro buone ragioni. Si mise delle scarpe nere, lucide, con tacchi molto alti e sottili, tredici centimetri, di metallo ed una fibbietta alla caviglia, molto sadomaso, una cavigliera dorata ed una cinta, molto alta, nera, in vita.
Pochi gioielli, solo dei sottili cerchi d’oro, signorili, “Fossi matta, mica me vojo fa’ rovina’ da ‘n tossico perso”, aprì la trousse e ci mise il suo cellulare:
“Speriamo che “lo stronzo” accenda il suo, altrimenti… vabbe’, anziché chiamare il mio poliziotto calabrese chiamerò i carabinieri, magari me ne capita uno dell’alt’Italia, come in quel film con la Lollobrigida e De Sica che ho visto su Retequattro, “Pane, amore e fantasia”….
Sai che faccia che fa il mio burino se è un carabiniere, e pure del nord, che me vie’ a soccorre’?
Sai che umiliazione?
…E poi no, speriamo di no, che non serva… guai veri non ne ho mai passati, pe’ fortuna…”

Nella borsa, borsetta, piccola, molto elegante, Mandarina Duck, costata un sacco di soldi, comprata in centro, Via Frattina, un rischio portarla, ma quanto le piaceva, com’era di classe, mise anche dei fazzoletti di carta, il rossetto :
“‘A prima pompa e t’o devi subito da rimette'”,
lo specchietto, le Marlboro Light, l’accendino ed i profilattici:
“Finora mi è sempre andata bene, perché dovrei cercarmi le malattie, la puzza sì, ma l’Aids no!”
Aveva anche uno spray irritante, antirapina o antiviolenza, glielo aveva portato in regalo un cliente da fuori, da Parigi, uno studentello gentile che la pagava, profumatamente, per vederla fare le cose agli altri:
“E’ strano, ma tanto educato, forse è frocio, boh…”

Si profumò con cura, accarezzandosi ancora, e si infilò lo Swatch Irony, regalatole da Antonio, quasi un feticcio, uno dei pochissimi regali del distratto calabrese.
Prese le chiavi di casa, le chiavi della macchina e, dopo aver inutilmente salutato Tonto, e ancor più inutilmente atteso una sua risposta, aprì la porta, la chiuse e scese, quasi di corsa, le scale.

Guardando l’orologio Irina, che era una lavoratrice coscienziosa, pensò:
“Madonna, già le dieci!
Se non comincio non finisco… Ostia aspettami, domani sarò da te!”

La Micra aveva due ruote a terra. Brutto segno.

“Due ruote a terra non sono un caso” – Irina si disse, riflessiva – “a chi cazzo starò sul cazzo, ‘sta volta?”
I vicini le volevano tutti bene, si erano affezionati a lei, che d’altronde era riservata e gentile con tutti, ma, in quel quartiere dormitorio di merda, di pazzi esaltati alla ricerca del nemico ce ne erano a bizzeffe: fascisti, preti, bigotti, mariti cornuti… o forse solo stronzi. Ci mise un attimo per capire cosa era successo: niente politica, niente morale, solo un banale passo carrabile. Irina aveva parcheggiato all’alba, assonnata, e poi non era più passata davanti alla macchina.
Quel grasso coglione del falegname turco, pieno di figli, avendo trovato l’ingresso del suo laboratorio bloccato, le aveva lasciato sul parabrezza, al mattino, un foglio in cui, dubitando, giustamente ma senza saperlo, della sua paternità, le aveva scritto:
“… a fio de ‘na mignotta, se non la levi te buco le gomme”
e poi, il pomeriggio – un uomo coerente – aveva messo in pratica la minaccia. Macchina caput.

“Evvabbene, bisogna ugualmente andare a lavorare”.
Irina tirò fuori il cellulare, decise che della Micra si sarebbe occupata lunedì, tanto domenica il falegname coglione era chiuso, pensò che forse, anzi certamente, Antonio sarebbe riuscito a dare una lezione a questa bestia, a fargli passare un brutto quarto d’ora, e fu orgogliosa del “suo” Antonio, che nel frattempo non aveva fatto assolutamente niente, aumentando però di molto la stima ai suoi occhi:
“Che fortuna esse’ l’amica d’un poliziotto!”.

Decise di non cercare Antonio, se la sarebbe cavata da sola.
Il racconto della sua disavventura, e la richiesta di vendetta, li rinviava a lunedì “Potrei fargli menare anche da Kaled… vedremo, vedremo domani, vedremo come sarà domani”, e decise di chiamare un tassì:

“Al lavoro in tassì, tornerò a casa in tassì, e poi, domani, per il mare, o trovo Barbra, oppure… un altro tassì”.

Era comunque felice, il falegname ed i suoi bambini cenciosi le erano sempre stati odiosi, non amava lo spettacolo della miseria, ed ora aveva anche una bella scusa per fargli passare un guaio.

“3570” chiamò “un tassì, da Via dei Glicini ad Ostiense, alla Piramide, fra quanto?”
“Capri2, fra tre minuti, che altezza di Via dei Glicini?”

Quando salì sul tassì si sentiva una signora, pensò alla bruna della pubblicità dei Ferrero Rocher e chiamò fra sé, sottovoce, l’autista “Ambrogio”.
Il tassista non capì, non rispose, la guardò interrogativo, non capì che era un uomo, capì solo che era una puttana, ma bella. Fu gentile, parlò di tasse, di vita, di schedine, di Coppa Italia, e di Lazio e Roma. Attraversò la città quasi come se la portasse ad una gita, una visita guidata. Per essere sabato sera non c’era molto traffico, in tanti non erano ancora rientrati dalle ferie.
Irina arrivò al suo posto di lavoro, si risistemò il rossetto e cominciò ad aspettare i clienti.
Quello era il suo posto, accanto al distributore della IP, aveva pagato un milione per non avere rotture di coglioni lì.
Guardandosi attorno si accorse di essere circondata da ragazzine di meno di vent’anni, facce nuove, pallidissime, tutte dell’Europa dell’est, bionde, slavate, diafane, dei veri fantasmi, un asilo infantile di fantasmi.
“Che tempi”, si disse fra sé, e si sentì, per una volta, una moralista e pensò, con gratitudine, a sua madre.

Pasquale Cuozzo era di vicino Napoli, di Grumo Nevano, alle pendici del Vesuvio. Era calvo e grassoccio, ed era un commerciante di materassi. Quando Mariarita, la moglie, volle la villa a Cortina, lui, che non amava la montagna né si poteva permettere di comprarci una casa, ma che amava, molto, la bella e giovane Mariarita, così più bella e giovane di lui, l’acquistò ugualmente, una piccola follia, facendo debiti e cambiali.
Poi la gente smise di dormire, o almeno di usare materassi, o almeno di comprare i famosi e conosciutissimi, nell’hinterland campano, materassi Cuozzoflex, comodissimi, ecologici, anallergici, garantiti venti anni, e Pasquale Cuozzo si trovò, da un giorno all’altro, indebitato fino al collo.
Allora si rivolse alle banche, ed ipotecò la villa a Cortina, la fabbrica, il negozio, la casa dei suoi a Grumo.
Poi, per pagare la banca, le banche, si rivolse agli amici e, poi, agli amici degli amici, e poi…
Un giorno andarono da lui, nella casa non più sua, era domenica, domenica sera, quattro uomini silenziosi, alti, grossi, scuri, neri, forti e minacciosi ed uno molto più piccolo, vecchio, ma loquace.
Parlò a lungo, si faceva le domande e si rispondeva da solo. Pasquale, ammutolito, non osò interromperlo, mai.
“Pasquale Cuozzo, tu ci devi, a noi, setteciento milioni…
setteciento milioni… la vita di un uomo vale molto meno di setteciento milioni, che tu non hai… potremmo ucciderti, ma non riavremmo i nostri soldi… e quindi, per ora, noi non ti uccideremo…
Tu non puoi pagare, evvabbene… e allora?
E allora te lo dico io: un giorno, domani, dopodomani, fra un mese, fra un anno… noi ti chiederemo un favore, e tu non potrai dirci di no. Se non vuoi vedere tua moglie stuprata davanti agli occhi di tua figlia e tua figlia stuprata davanti agli occhi di tua moglie, non rifiutarci il favore che ti chiederemo… capito?”
Pasquale Cuozzo aveva capito, e capito molto bene, era innamorato, ma non cretino.
Le parole, poi… gli accenti giusti, i giusti toni:
tu, noi, setteciento, non potrai dirci di no.
A Pasquale era sembrato di trovarsi dentro una scena del Padrino, anche se quel vecchio non assomigliava a Marlon Brando, era molto, molto più minaccioso.

Tutto questo avveniva due anni prima e, due anni dopo, lo stesso uomo, piccolo e vecchio, ancora più piccolo, vecchio e curvo, andò di nuovo a trovarlo. Pasquale non lo vedeva da quella sera, il vecchio lo guardò, cupo, e gli disse:
“Questo è il favore… questo è l’uomo da eliminare, questa è la pistola, lui vive a Roma. Non chiedere niente, fai il tuo dovere e noi ci scorderemo il tuo debito, altrimenti… ” e guardò verso Romina, la bella figlia tredicenne di Pasquale.

Quella sera, quel sabato sera, Pasquale Cuozzo stava a Via Ostiense, a Roma.
Stava in piedi, nascosto in un portone buio, la strada, attorno, era illuminata dai lampioni.
Sentiva la canna fredda della Beretta in tasca.
Erano quattro giorni che stava là, alla Piramide.
Il suo uomo gli era già sfuggito una volta, aveva capito, ma lui non voleva capire troppo né ricordare, lui voleva solo finire, chiudere e dimenticare, aveva capito che era un uomo importante, forse un politico, forse un giudice, molto per bene, molto onesto, ma con la passione delle ragazzine, piccole, delle quattordici, quindicenni. Queste, albanesi, bosniache, croate, battevano ad Ostiense, dietro alla Piramide, accanto ai travestiti, e già tre giorni prima Pasquale aveva visto il suo uomo, ma non aveva fatto in tempo ad avvicinarsi.
Troppo lontano lo aveva visto arrivare e, prima di riuscire a prendere la mira, aveva visto la Opel corsa blu cobalto metallizzata della moglie del giudice, la macchina piccola, meno appariscente, andar via con una ragazzina, quasi una bambina…
Era rimasto ore ad attenderli, in quella notte piovosa, ma la Opel cobalto metallizzata, lucida, non era più tornata, chissà dove il giudice aveva fatto scendere la sua compromettente compagna di viaggio, il suo ingombrante bagaglio?
La macchina cobalto lucida, fresca di autolavaggio, era sabato, arrivò puntuale quella sera e Pasquale, da dietro un albero, prese, con calma, la mira:
“Stavolta non mi freghi, stronzo, l’incubo è finito”

Sparò uno, due, tre colpi, l’intero caricatore.
I proiettili attraversarono il deflettore e l’uomo al volante, il Sostituto Procuratore Malavolta della Procura di Roma, noto alle cronache per le sue rigorose inchieste sulle connivenze fra potere politico e delinquenza comune, si accasciò al volante, si adagiò sul cruscotto, si sgonfiò come una bambola di gomma, ferito a morte, mentre Alja, la giovane, pallida polacca con cui stava trattando il prezzo, fu solo sfiorata dai colpi, neanche un graffio, la Madonna nera di Czestochowa, cui lei era tanto devota, fece il miracolo.
Solo una delle sei pallottole sparate non andò a bersaglio, non colpì Malavolta e, vagante, rimbalzò su di un muro, arrivando a colpire, poi, un elegante travestito, non più molto giovane, ma ancora molto bello, femminile e di classe.

Gli spappolò il fegato, cadendo nel lago del suo stesso sangue, dopo pochi, lunghissimi e terribili istanti, eterni, Irina morì.

Antonio, distratto, lo seppe solo due giorni dopo.
La sera stessa arrivò il rapporto in caserma, ma lui non c’era, stava giocando “al medico e l’infermiera” in una cella con Katrine, un altro travestito.
Vantando la bravura e l’abilità della sua Irina aveva sfidato il suscettibile orgoglio di Katrine, un trans brasiliano che gli diede ampia prova di essere più bravo di Irina.
Poi, spossato, finito il turno, andò a dormire per l’intera giornata di domenica.
Solo il lunedì scoprì, con dolore, quel che era accaduto a Irina, la pallottola vagante, la grande sfortuna del suo amore.

Oggi vive a Via dei Glicini, nell’appartamento di Irina, nel quale è riuscito, chissà come, a subentrare, con Tonto, il gatto puzzolente, denutrito e spelacchiato di Irina, e con Katrine, che ha cercato e trovato la maniera di consolare il suo dolore.
A volte Antonio pensa che la lingerie di Irina stia molto meglio a Katrine e, quando glielo dice, lei squittisce di gioia.
Una domenica sì ed una no vanno, assieme, a portarle i fiori sulla tomba, al Cimitero, a Primaporta, e poi, dopo, a pranzo fuori, in uno di quei ristorantoni grossi della Cassia, Casale, Casalone, Foresta, verso Viterbo.

Pasquale è tornato a Grumo Nevano, ha dimenticato tutto, è molto felice.
Sua moglie Mariarita è di nuovo incinta, daranno un fratellino a Romina e lui, scoperto quanto gli piace lavorare per gli amici, ha deciso di non vendere più materassi, ma di continuare a girare il mondo su incarico del signore piccolo, curvo ed anziano.
Forse farà fortuna.

Solo Kaled, domenica, è andato sulla spiaggia, con i suoi occhiali ed i suoi parei.
Per uno sciopero della metro è arrivato molto tardi, ha venduto pochissimo e, soprattutto, non ha trovato la sua bellissima donna, di cui era innamoratissimo, la bella Irina, rossa, alta e sensuale.
Kaled, per tutti i trenta giorni che aveva fatto in cella, aveva sempre pensato a lei, sperando di rivederla, ma quella mattina, tardi, quando lui è arrivato, non l’ha trovata, lei non c’era già più.
La spiaggia era piena di froci, come dicono qui a Roma, ma Irina non c’era più, lui era arrivato tardi, ormai era andata via.

Kaled non l’ha più ritrovata, ma la cerca sempre, lei era così bella e dolce, era la donna della sua vita, lui ne è certo.

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