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Il paese e Torino

Luglio 09
13:42 2010

(Maria Lancinotti) – Il paese è Ischitella nel Gargano, Torino è la città industriale che promette avvenire. Vincenzo Luciani lascia la sua terra da ragazzo e parte con la famiglia verso le luci del nord. Una storia come tante e uguale a nessuna che serve a raccontare e ricordare il nostro recente passato di emigranti che senza allontanarsi troppo, senza sconfinare in territori stranieri, risalivano intorno agli anni del boom lo Stivale spinti non più tanto dal bisogno estremo – come quando nella prima metà del secolo scorso si partiva per le lontane Americhe o per l’Australia  o il Canada con un biglietto di sola andata –, ma per andare a conquistarsi una qualifica di operaio specializzato e un lavoro con contratto regolare che ti copre dagli infortuni e dalle malattie e ti assicura una vecchiaia tranquilla una volta raggiunta l’età della pensione.

Tutto qua, era questo il grande sogno racchiuso nelle tante valigie di cartone pressato, nei fagottelli fragranti di cibi paesani, nelle tasche vuote da riempire. Una storia semplice e grandiosa che non dice nulla di nuovo ma ripresenta in versione poetica il duro accanirsi dell’uomo contro le asperità della vita da smussare a forza di braccia e sudore e fiducia.Un libricino smilzo di pochi grammi, in copertina un delicato acquarello di Rosa Valle Luciani con un familiare scorcio di paese, e l’onesta presentazione di Diego Novelli che ben conosce la realtà di quegli anni di cambiamento e di lotta “… quando i contadini, i braccianti, i pastori del sud venivano sradicati dalle loro terre, dai loro affetti, dai loro costumi, dalle loro tradizioni e catapultati al nord”. Il paese e Torino, Salemi editore 1985, comprende 47 composizioni  suddivise in tre sezioni. “Se di te mi ricordo!” è il canto della nostalgia e della memoria, l’infanzia  troppo breve che si porta appresso con desiderio e dolore frammenti di ricordi odorosi e vivi: Una volta di sera/ il paese era tutta una festa (…) E alle finestre femmine e creature/ spuntate tra garofani e gerani,/ basilico, mentuccia e petrosino.  “Si va come alla guerra” – di ungarettiana assonanza – ripercorre come stazioni quaresimali le tappe dell’emigrante fanciullo che crescendo conserva il segno di una lacerazione prematura che nessun ritorno potrà mai cancellare e tantomeno risarcire: Meglio il sole e il paese/ e finire nei campi mortacciso,/ meglio la morra allegra e scapestrata/ dei cinque figli da vestire e da sfamare, meglio un litro di vino paesano,/ la cipolla novella,/ due olive e un po’ di cacio,/ una bevuta d’acqua di sorgente,/ dormire sotto il sorbo e le cicale. Così come mai si possono dimenticare i padri: Ai padri dei padri/ che ararono terre petrose/ sotto il sole padrone. “Noi, il paese e Torino”, è l’atto di riconoscenza dovuto al luogo della nebbia e dell’operosità che porta al riscatto sociale, ma anche un atto di autentico attaccamento alla città che tanti figli del sud ha visto crescere ed emanciparsi negli anni bollenti della contestazione e della lotta di classe: Quei giorni vivi del sessantanove!/ Torino si scrollava dalla paura:/ di giorno in giorno più liberi,/ ma ancora diffidenti. I canti di rivoluzione/ di giorno in giorno cantati più forte./ Respiravamo insolentemente contenti;/ dalle viscere eruttavano insulti/ di chi vince e non scorda la fatica/ e alza e scuote le bandiere rosse. E la incredibile Juventus: Magliette bianco–nere colorate/ come di bianco e nero nulla è al mondo. E infine si lascia Torino, e quella via Artom in cui tanti bambini crebbero fra i canti del sud e … finestre/ stracolme di Concette e Rosalie: Lascio i compagni che lottarono con me,/ i pochi amici veri,/ la desolata periferia:/ bambini che tengono per mano/ bambini ancora più piccoli,/ le donne sempre incinte/ che fanno maestose le strade,/ (…) le liti alle case di via Artom:/ piatti rotti, vetri rotti,/ pianti di bambini che straziano. Ma senza passare per Torino e la sofferenza dell’immigrazione, quasi certamente Vincenzo Luciani (classe 1946) non sarebbe approdato a Roma dove dirige il mensile Abitare A, cura il trimestrale Periferie di cui è cofondatore insieme con Bruno Cimino, e con Riccardo Faiella i Quaderni del Centro di Documentazione della poesia dialettale “Vincenzo Scarpellino”. Nell’ultimo decennio ha pubblicato con Edizioni Cofine diverse altre raccolte di poesia in lingua e in dialetto. E ha deciso che da grande vuole fare il poeta.

(Maria Lancinotti) – Il paese è Ischitella nel Gargano, Torino è la città industriale che promette avvenire. Vincenzo Luciani lascia la sua terra da ragazzo e parte con la famiglia verso le luci del nord. Una storia come tante e uguale a nessuna che serve a raccontare e ricordare il nostro recente passato di emigranti che senza allontanarsi troppo, senza sconfinare in territori stranieri, risalivano intorno agli anni del boom lo Stivale spinti non più tanto dal bisogno estremo – come quando nella prima metà del secolo scorso si partiva per le lontane Americhe o per l’Australia  o il Canada con un biglietto di sola andata –, ma per andare a conquistarsi una qualifica di operaio specializzato e un lavoro con contratto regolare che ti copre dagli infortuni e dalle malattie e ti assicura una vecchiaia tranquilla una volta raggiunta l’età della pensione. Tutto qua, era questo il grande sogno racchiuso nelle tante valigie di cartone pressato, nei fagottelli fragranti di cibi paesani, nelle tasche vuote da riempire. Una storia semplice e grandiosa che non dice nulla di nuovo ma ripresenta in versione poetica il duro accanirsi dell’uomo contro le asperità della vita da smussare a forza di braccia e sudore e fiducia.Un libricino smilzo di pochi grammi, in copertina un delicato acquarello di Rosa Valle Luciani con un familiare scorcio di paese, e l’onesta presentazione di Diego Novelli che ben conosce la realtà di quegli anni di cambiamento e di lotta “… quando i contadini, i braccianti, i pastori del sud venivano sradicati dalle loro terre, dai loro affetti, dai loro costumi, dalle loro tradizioni e catapultati al nord”. Il paese e Torino, Salemi editore 1985, comprende 47 composizioni  suddivise in tre sezioni. “Se di te mi ricordo!” è il canto della nostalgia e della memoria, l’infanzia  troppo breve che si porta appresso con desiderio e dolore frammenti di ricordi odorosi e vivi: Una volta di sera/ il paese era tutta una festa (…) E alle finestre femmine e creature/ spuntate tra garofani e gerani,/ basilico, mentuccia e petrosino.  “Si va come alla guerra” – di ungarettiana assonanza – ripercorre come stazioni quaresimali le tappe dell’emigrante fanciullo che crescendo conserva il segno di una lacerazione prematura che nessun ritorno potrà mai cancellare e tantomeno risarcire: Meglio il sole e il paese/ e finire nei campi mortacciso,/ meglio la morra allegra e scapestrata/ dei cinque figli da vestire e da sfamare, meglio un litro di vino paesano,/ la cipolla novella,/ due olive e un po’ di cacio,/ una bevuta d’acqua di sorgente,/ dormire sotto il sorbo e le cicale. Così come mai si possono dimenticare i padri: Ai padri dei padri/ che ararono terre petrose/ sotto il sole padrone. “Noi, il paese e Torino”, è l’atto di riconoscenza dovuto al luogo della nebbia e dell’operosità che porta al riscatto sociale, ma anche un atto di autentico attaccamento alla città che tanti figli del sud ha visto crescere ed emanciparsi negli anni bollenti della contestazione e della lotta di classe: Quei giorni vivi del sessantanove!/ Torino si scrollava dalla paura:/ di giorno in giorno più liberi,/ ma ancora diffidenti. I canti di rivoluzione/ di giorno in giorno cantati più forte./ Respiravamo insolentemente contenti;/ dalle viscere eruttavano insulti/ di chi vince e non scorda la fatica/ e alza e scuote le bandiere rosse. E la incredibile Juventus: Magliette bianco–nere colorate/ come di bianco e nero nulla è al mondo. E infine si lascia Torino, e quella via Artom in cui tanti bambini crebbero fra i canti del sud e … finestre/ stracolme di Concette e Rosalie: Lascio i compagni che lottarono con me,/ i pochi amici veri,/ la desolata periferia:/ bambini che tengono per mano/ bambini ancora più piccoli,/ le donne sempre incinte/ che fanno maestose le strade,/ (…) le liti alle case di via Artom:/ piatti rotti, vetri rotti,/ pianti di bambini che straziano. Ma senza passare per Torino e la sofferenza dell’immigrazione, quasi certamente Vincenzo Luciani (classe 1946) non sarebbe approdato a Roma dove dirige il mensile Abitare A, cura il trimestrale Periferie di cui è cofondatore insieme con Bruno Cimino, e con Riccardo Faiella i Quaderni del Centro di Documentazione della poesia dialettale “Vincenzo Scarpellino”. Nell’ultimo decennio ha pubblicato con Edizioni Cofine diverse altre raccolte di poesia in lingua e in dialetto. E ha deciso che da grande vuole fare il poeta.

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