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 “Il sindaco di Montoliveto”  di Aldo Coloprisco

 “Il sindaco di Montoliveto”  di Aldo Coloprisco
Settembre 13
08:19 2023

Un romanzo è una forma di arte, nasce da una visione, dal sogno di un autore.

Quando l’arte esce dalle mani dell’autore, non gli appartiene, perché non è destinata a lui, ma agli altri. Davanti a un quadro, a una scultura, ad un pezzo di musica si sta in silenzio e si ascolta: i colori, le note parlano, ancora di più lo fa un romanzo, perché ha come veicolo proprio le parole.

   E’ vero, Pirandello diceva che le parole non hanno una realtà oggettiva, ma si colorano del significato che ognuno dà loro, da qui l’incomunicabilità, il suo vedere gli uomini come chiusi in tante celle, senza alcuna possibilità di comunicare se stessi, perdendo la loro unicità in centomila visioni soggettive.

   Ma ci può essere un modo diverso di vedere le cose, perché forse proprio le tante sensibilità arricchiscono la nostra realtà, e soprattutto tutto ciò che è bellezza dilata gli orizzonti e rompe ogni barriera.

   Nel mio lavoro mi trovo spesso davanti a un testo scritto, e i miei ragazzi sanno che il primo passo per conoscere un autore è mettersi in dialogo con lui attraverso le sue opere, prima si ascolta quanto l’autore ha da dirci, poi c’è il momento della risonanza interiore, per coglierne e assaporarne il messaggio e poi viene tutto il resto.

   Così io ho cercato di fare con il romanzo del prof. Aldo Coloprisco, il mio professore; ho letto e ho cercato di cogliere quanto esso mi ha comunicato, e proprio questo condividerò con voi.

   La prima chiave di lettura è il paese, quel paese che Coloprisco chiama Montoliveto, ma che in realtà è il suo paese, o meglio i suoi due paesi: San Procopio e Sant’Eufemia d’Aspromonte.

   Il paese da lui descritto non ci potrebbe essere se non ci fosse stata una partenza, e soprattutto se non ci fosse stato un nostos, un ritorno, se non

che si porta dietro, che sfuma il tempo e i contorni e conferisce ai luoghi e alle vicende una dimensione lirica e forse onirica, assegnando un’anima alle cose, facendo riemergere quel fanciullino che, come dice Pascoli, c’è in ognuno di noi, a cui i poeti riescono a dare voce.

   Ritorniamo a Montoliveto, ed ecco qui un’altra parola – chiave, ovvero gli uliveti.

Gli uliveti accompagnano la storia fin dal suo esordio, nella parte introduttiva in modo particolare. Qui si presentano come testimoni di secoli della storia, ma si tratta di testimoni particolari che partecipano quasi emotivamente alle vicende di chi vive in quei luoghi, e hanno la netta percezione delle varie civiltà che si sono avvicendate, dalla Magna Grecia alla conquista romana, dall’avvento del Cristianesimo alle dominazioni che sono seguite.

   Gli uliveti hanno conosciuto il sudore di chi ci ha lavorato, essendo alla base dell’economia locale, ma hanno pure conosciuto i soprusi di chi ha sfruttato quel lavoro, principalmente femminile, prendendosi le loro fatiche ma anche i loro corpi.

   Gli uliveti diventano custodi gelosi di quel luogo, sono una presenza rassicurante e staranno sempre lì a guardare, fino alla conclusione, quando tutto si ricomporrà e forse anche loro potranno riposare.

   Sempre perché veicolato dal ricordo, anche il tempo ritorna alla sua dimensione primitiva, si riapproprierà dei suoi ritmi naturali. Le ore sono scandite dal cammino del sole, e anche il ritmo delle stagioni accompagna la vita e il lavoro dell’uomo.

   Non abbiamo il tempo che fagocita la vita dell’uomo, il tempo è fatto per l’uomo, e non viceversa.

   L’unico elemento non naturale è l’orologio del Comune o la campana della Chiesa, e questo perché in quel microcosmo il ritmo dell’esistenza è il ritmo della collettività, e questa collettività si riconosce nella comunità civile e nella comunità parrocchiale.

   Torniamo al titolo del romanzo, Il sindaco di Montoliveto.

   Nonostante il titolo, la storia raccontata in questo romanzo non è quella del sindaco, il sindaco è un’idea, un’utopia, un sogno, il realizzarsi delle aspettative dei protagonisti, di quei bambini che vocianti e allegri andavano a scuola dalla maestra dal collo lungo, che avevano chiamato Giraffa, e che al suono della campanella si riversavano a frotte nelle strade e nelle piazze pensando e organizzando i giochi del pomeriggio, che li avrebbe visti trasformare la pubblica piazza in un campo di calcio o che li avrebbe fatti volare più vicini ai loro sogni con l’aquilone costruito da Leo.

   Poi quei bambini sono cresciuti, alcuni di loro, adolescenti, hanno iniziato a prendere il treno per studiare nelle cittadine vicine, e poi alcuni sarebbero andati all’università fuori regione. Altri scelgono il lavoro manuale e costruiscono presto una loro  famiglia, ma tutti portano dentro al cuore il proprio paese.

   Il sindaco è il sogno dell’autore, del professore Coloprisco, perché a una lettura più profonda quei giovani rappresentano la sua giovinezza, i suoi compagni di scuola, ma rappresentano anche i suoi ragazzi, quelli che ha cresciuto e formato e che ha continuamente spronato all’impegno, perché la sua terra potesse essere riscattata, e questo riscatto non può che partire dal lavoro e dalla cultura.

   Notiamo infatti una certa frattura tra il mondo degli adulti e i giovani.

   Gli adulti rappresentano un passato fatto di sopraffazione, che si alimenta dell’ignoranza diffusa, di giochi di potere, di logiche opportunistiche concentrate sul fare per ottenere. I giovani invece rappresentano la voglia di nuovo, il desiderio di cultura, la loro mente è aperta e il cuore pullula di sentimenti genuini, di passioni autentiche e forti, sono soprattutto l’espressione del bisogno di verità.

Si tratta di due mondi in conflitto, che si muovono su piani diversi.

   Il racconto, come anticipato, è corale, nel romanzo s’intrecciano le vicende di Angelo, di Nina, Luigi, Rocco, Rachele, Edda, Leonardo, ex compagni di scuola o di giochi, giovani che hanno scorrazzato insieme per le stesse strade, che hanno studiato e sognato insieme un mondo diverso.

   Poi ognuno ha seguito la propria strada, a volte scelta, altre imposta, ma queste strade si sono intersecate, perché alla fine c’è sempre il paese ad unirle e lo stesso sogno di cambiare il mondo, e così ci sarà chi sceglierà di restare ma lo farà puntando su valori come la giustizia, la cultura, il lavoro, chi andrà via, ma con l’occhio sempre rivolto alla propria terra, incoraggiando da lontano ogni tentativo di emancipazione, poi ci sarà chi ritornerà e proverà a realizzare quel sogno che li accomunava, ma sempre insieme agli altri, perché il cambiamento sarà possibile se desiderato e rincorso da tutti.

   Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.(Pavese ).

   Perché un paese ti addomestica, come dice la volpe al piccolo principe. Un paese è fatto di legami che danno un significato diverso ai luoghi ed anche alle ore del giorno, è fatto di riti che creano appartenenza, così come nei Malavoglia è Rocco Spatu a scandire l’inizio della giornata.

   Perché un paese si esprime nei suoi riti che rendono speciali i giorni pure nella loro quotidianità, riti in cui riconosci gli altri, ma che ti portano a conoscere te stesso come parte di un tutto che respira la tua stessa aria, calpesta la stessa terra e sente pulsare dentro di sé lo stesso battito.

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