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Agosto 05
23:00 2007

Era esposta nel museo improvvisato della fiera del paese fra altre gloriose meraviglie dell’età moderna, come una grossa e tozza regina.
Sotto la luce calda di un faretto giallo, non sembrava un prodotto tecnolo-gico ma uno scrigno di radica morbida e luminosa riempito di magie da un falegname fantasioso.
L’antenna, di filo di rame sottile e lucente, era un arabesco avvolto in una spirale spigolosa di quadri sempre più piccoli fino a svanire nel nulla, una forma fatta per catturar le vibrazioni dell’etere come una ragnatela cattura gli insetti.
I comandi erano semplici. Una grossa manopola di bachelite marrone per la sintonia, sulla destra, ed una identica a sinistra per l’accensione ed il vo-lume.
Fra le manopole c’era il quadrante della sintonia, ovale, in cui la lancetta dell’indicatore ruotava sui nomi delle stazioni scritti fittissimi. Fra questi, oltre a quelli di città note e vicine, ce n’erano di esotici, di località lontane oltre ogni illusione di potersi mettere in contatto, Istanbul, Bagdad, Hong Kong, Ziznick….
Dove mai sarà Ziznick?

L’altoparlante era sospeso con piccole molle per evitare risonanze indesi-derate nella cassa armonica. Era rotondo e robusto, adatto a voci importan-ti, come la cassa armonica, vasta, solida, spessa come il petto di un tenore.
All’interno, attraverso la grata di protezione posta sul retro, si vedevano le grosse valvole di vetro argentato che ospitavano misteriose geometrie me-talliche, capaci di comprendere il linguaggio degli esotici elettroni venuti da quelle stazioni da favola e rimasti impigliati nell’antenna come farfalle nella rete.
Parevano, quelle valvole, sfere di cristallo per scrutare nel tempo, frutto di una tecnologia lontana da noi solo pochi decenni, ma tanto diversa da quella d’oggi da far pensare ad una sapienza aliena e inconciliabile con una mente terrestre.
Dovevo riscoprire il mistero di quei fiori di metallo delicato come seta, in-terpreti di magie dimenticate.
Mi guardai attorno e, siccome non c’era nessuno nelle vicinanze, allungai la mano per toccarla nonostante fosse proibito da un severo cartello.
Assaporai una morbidezza calda e pastosa, tanto diversa dalla freddezza esigente dei prodotti dei giorni nostri, e quella grossa, tozza radio d’altri tempi mi sembrò la cosa più vicina alla perfezione si potesse immaginare.
Mi ribellai al pensiero che fosse lì, sotto un faretto giallo, a suscitar nostal-gie nei nostri vecchi in quell’unico giorno di festa all’anno e per il resto dimenticata in un angolo.
Che è successo al mondo? pensai e subito fui pieno di pensieri che non a-vevo in programma di pensare.

Che è successo alla radice quadrata?
Nessuno la sa più fare. Per calcolarla basta una macchinetta da poche li-re.
Come si fanno le cose banali?
Come si accende un fuoco senza fiammiferi?
Di sicuro qualcuno lo sa, ma tutti gli altri hanno dimenticato.
Dimentichiamo qualcosa ogni giorno e in mille piccole cose ci spaventa-no i segni di un sapere sconosciuto.
La sapienza del passato è divenuta un soprammobile, sta lì in un angolo a prender polvere, sola, dimenticata, inutile.
Ma per qualcuno di noi è tornata magia, un mistero da riscoprire e capa-ce di ridar luce ad una vita che sempre più sta sbiadendo.
Forse quella sapienza fa parte del futuro, il tempo desiderato in cui avre-mo soddisfatto la nostalgia per un mondo più semplice.
Forse il tempo si è invertito, si è chiuso in circolo su un passato vicino ma dimenticato, si è rivoltato come un calzino, per farci uscire dalla nuova e antica barbarie in cui viviamo.

La luce del faretto giallo cadeva sulla radica lucente dello scrigno e susci-tava riflessi dorati, segni della magia che desideravo esistesse al suo inter-no.
Furtivamente girai la manopola di sinistra.
L’interruttore rispose al mio sforzo con un clack metallico e subito un ron-zio caldo riempì l’aria che divenne in qualche modo densa ed importante.
Le valvole si stavano scaldando, vedevo i filamenti rosseggiare oltre la grata di protezione e passare poi all’incandescenza.
Il ronzio si trasformò in un fischio fastidioso, nessuno trasmetteva sulla frequenza selezionata.
Girai la manopola di destra, cercando di sintonizzarmi su qualche stazione, ma non cambiò nulla.
Le stazioni da favola non trasmettevano più, nell’aria non volavano più e-lettroni esotici, si usano altri linguaggi per piegare l’etere, oggi, incom-prensibili per le vecchie valvole argentate che scaldavano il cuore della ra-dio di radica.
Captai solo fischi e brontolii, il malumore di uno strumento perfetto in cui il ricordo del futuro palpitava come brace sotto la cenere. Continuai a gira-re la manopola di bachelite, in cerca di vecchi segnali dimenticati nell’aria ma non succedeva nulla, quella magia d’altri tempi sembrava aver perso ogni potere.
Poi la lancetta arrivò su Ziznick (nessun nome sembrava più inventato di questo) e, imprevedibilmente, il fischio scomparve e dall’altoparlante uscì una canzone. Stupefatto, riconobbi Yellow Submarine, il Sottomarino Giallo dei Beatles che parte al soccorso dell’Uomo_che_non_c’è, oltre il Mare dei Buchi Neri, nel paese dove i Biechi Blu hanno distrutto la musica e la civiltà.
Tornai con la mente a quando l’avevo ascoltata per la prima volta e lasciai che la nostalgia mi facesse rabbrividire.
Correvo a comprare i dischi appena usciti e li facevo ascoltare alla mia ra-gazza, in silenzio, per ore, sfidando la sua pazienza.
Ascoltavo le loro parole una ad una, con l’orecchio incollato all’altoparlante, le scrivevo su un quaderno a quadretti, imparavo un Ingle-se che a scuola non mi insegnavano.
Di tutto quello che era possibile trasmettere e ricevere, proprio quella can-zone della mia giovinezza…. Era un messaggio? Era per me? Una scheggia di magia solo per me? Quella grossa, diabolica regina era brava a suscitar ricordi e nostalgie. Girai la manopola e credetti di spegnerla ma la canzone non si interruppe.
Ziznick continuava a trasmettere.
Cantava un Beatle dall’insolita voce di tenore ma non era di John, nè di Paul, nè di George, nè di Ringo.

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