Night time Taxi Driver
Travis Bickle, interpretato da Robert De Niro in “Taxi Driver”, film del 1976 diretto da Martin Scorsese, è uno dei personaggi più ambigui che la storia cinematografica americana abbia mai conosciuto. Personaggio solitario e paranoico, violento e disadattato, Bickle è un reduce della guerra in Vietnam che decide di monetizzare la sua perenne insonnia impiegandosi come tassista e percorrendo di notte le sudice e inquietanti strade di New York. Bickle è l’incarnazione moderna, frustrata e ambigua, di uno degli archetipi più tradizionali dell’immaginario americano: il giustiziere solitario. Ma se nel cinema classico di Ford questa figura aveva trovato il suo massimo e positivo esempio nel John Wayne di “Sentieri Selvaggi”, nell’America degli anni ’70, dilaniata dalla guerra in Vietnam, dagli omicidi di Kennedy e di Luther King e dalle rivolte giovanili, non c’è spazio per uomini buoni ed eroici. Ecco dunque Travis Bickle, tassista senza motivazioni, frustrato dalla propria condizione umana e sociale, che dopo il naufragio di due storie sentimentali, si trasforma in un killer sanguinoso e crudele. Ma quali sono le reali motivazioni del tragico comportamento di Travis? Perché decide di dare sfogo alla sua rabbia repressa ideando l’omicidio del candidato presidente Palantine, massacrando il protettore di una prostituta e chiunque si pari sulla sua strada? Scorsese evita, volutamente, di fornire una spiegazione, di offrire un approccio univoco per formulare un proprio giudizio. E proprio in questo risiede la grande forza di “Taxi Driver”: scegliere di non schierarsi, di non giudicare.
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