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L’accettazione di una possibile trasformazione

Novembre 26
13:20 2009

“La violenza regna dove l’ingiustizia ingrassa”, per chi pensa che al male si risponde con altro male, nell’illusoria convinzione di risolvere i drammi individuali e le tragedie collettive. C’è sempre un momento nella vita di ciascuno, in cui occorre essere consapevoli che non è possibile sopravvivere a noi stessi, in un carcere, in una cella, dove gli occhi non vedono, le orecchie non ascoltano, mentre il corpo resta inerte, scomparsa la ragione, tramortita la fede. E’ possibile perdonare? E’ consentito all’uomo elevare la propria umanità? La risposta sta solo nel carcere, nella pena inflitta, ma forse la richiesta intima del perdono è atto che riguarda la persona, nessuno si salva, se non sa perdonarsi, se non trova nell’altro gesti e parole d’amore.
Pagare il proprio debito alla società non può significare la creazione di una nuova dimensione di violenza, in una pena distruttiva e immutabile. Un contesto disumanizzato e disumanizzante, come quello del carcere, toglie all’uomo la speranza, non solo privandolo della libertà, ma estraniandolo dalla propria dignità. Privare la persona della possibilità di rendersi conto dei propri errori, significa non consentirle di fare i conti con il peso delle proprie colpe, con le lacerazioni che hanno prodotto la rottura del vivere civile. Ricostruirsi sottende capacità e forza per riparare al male fatto, richiama l’altro-gli altri ad accorciare le distanze, affinché conoscere comporti la scelta più giusta, ove l’uomo che chiede perdono, non con le parole, non con i megafoni, né con la pietistica, lo fa nei gesti ripetuti, nei comportamenti quotidiani.
Rimangono le responsabilità e gli abissi dell’anima, nulla è cancellato, niente è dimenticato, ma sentire dentro il bisogno di perdonarsi, di avere pietà di se stessi, indica la via per l’altro bisogno: essere perdonati per ciò che si è nel presente, condividendo quel bene comune che è intorno a noi. Perdonarsi e chiedere perdono è voce che parla al cuore con note forti per tentare di tramutare l’ansia e il dolore delle vittime in riconciliazione che sia cambiamento fruibile per la collettività tutta. Una vendetta che ripara teatralmente non produce nulla di positivo, e neppure un carcere che mantenga inalterata la follia lucida di chi ha commesso un reato.
L’umanità, quando è ferita, richiede maggiore severità nelle pene da espiare, mentre la persona detenuta sconta la propria pena convincendosi di aver pareggiato il conto, di aver pagato quanto dovuto. Invece, riconoscere il bisogno di perdonarsi e perdonare, sottolinea l’urgenza di un percorso umano (non solo cristiano) nella condivisione e reciprocità, nell’accettazione di una possibile trasformazione e di un fattivo cambiamento di mentalità. E’ così distante quel verbo nella nostra umanità lacerata. Non può esistere umana vita senza la speranza di una vita migliore, e la speranza è, sì, scienza del non ancora, ma essa avverrà con l’impegno di tutti: colpevoli e innocenti.

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