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Mio padre non mi abbandonò morendo

Giugno 14
13:01 2011

Mio padre morì tanto tempo fa, a maggio, in un giorno pieno di vento.

L’avevo sognato all’alba. Indossava il vestito buono e portava il cappello alla ventitré. Aveva la faccia triste. Un’espressione che mi sembrò colpevole. Mi guardava, muto e fermo come una statua. Poi, senza muoversi, sparì nell’ombra.
Dormivo quella notte con i miei fratelli nella loro stanza. Non volevo in quel periodo dormire da sola nella mia stanzetta. Prima ancora di svegliarmi iniziai a urlare. In quello stesso momento mia madre aprì la porta. Non disse nulla e capimmo. Mio padre stava morendo nella stanza accanto. Era venuto a dirmi addio, sentendosi per questo in colpa. E lo incolpavo, infatti, dentro di me. Avevo solo tredici anni. Avevo bisogno di lui.
Eravamo tutti intorno al suo capezzale e io continuavo a urlare, mentre guardavo mio padre lottare per le ultime sorsate d’aria. Soltanto negli ultimi due giorni aveva ottenuto la pietà della morfina. Allora, di cancro si moriva arrabbiati come cani.
Mia madre mi disse: “Vai a prendere il latte e prepara la colazione,” e mi mise tra le mani i soldi e la bottiglia di vetro. La latteria era vicino casa. Pensai che mia madre fosse di cuore duro. Invece era una donna forte che mi stava aiutando a restare attaccata a questo mondo, con le piccole grandi incombenze di tutti i giorni.
Ero stranita. Non sapevo in che luogo mi trovavo. Stavo di sicuro su un confine. Mio padre lo oltrepassò e io restai sospesa in un non-tempo.
Fu allestita la camera ardente nella sala da pranzo. Mio padre fu sistemato sul tavolo ricoperto da un lenzuolo bianco. Vestito come l’avevo visto in sogno, ma senza cappello e con l’aria serena. Il vicinato non ci lasciò mai soli. Mia madre poté finalmente disperarsi. Aveva vissuto cinque mesi accanto a mio padre senza lasciarlo un attimo, respirando la sua sofferenza di notte e di giorno. Badando a noi figli con polso fermo.
Mia madre aveva solo quarantasei anni, quando restò vedova. Il resto della vita lo dedicò alla famiglia e alla memoria di mio padre.
Nell’orticino che coltivava ormai da sola riservò un angolo di terra sempre rigogliosa di fiori. Quando andava al cimitero, con la veste migliore e le scarpe col tacco e il suo mazzolino di fiori, pareva che si recasse ad un appuntamento d’amore. Ero troppo giovane allora per capire la perdita enorme che aveva subito mia madre, e la solitudine che l’accompagnò per il resto della sua vita nonostante la vicinanza dei figli e la cura che si prendeva per tutta la famiglia. In lei vedevo la madre e non la sposa, ancora giovane, privata del suo compagno, del suo sostegno affettuoso.
Che io l’abbia capito, dopo tanti anni, non mi dà modo di riparare nei confronti di mia madre, assente ormai da lungo tempo da questa vita, ma mi aiuta a comprendere l’atteggiamento che appare a volte di disattenzione da parte dei figli e che è invece il gran bisogno che loro hanno di sentirsi compresi e protetti dal proprio genitore, dovendo a loro volta occuparsi e preoccuparsi dei tanti piccoli e grandi problemi dei loro figli.
E’ la ruota che gira, la ruota della vita che ripropone sempre gli stessi circuiti, da compiersi nei diversi ruoli.
A distanza di tanto tempo ho compreso anche che mio padre non mi aveva abbandonata, morendo, solo aveva dovuto cambiare “dimora” e non certo per sua volontà; e che posso sempre ritrovarlo attraverso quello che di suo è riuscito a riversare in me – e che io trasmetterò a chi viene dopo di me – o attraverso le infinite vie della poesia, intesa come la vita stessa.
Maria Lanciotti

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