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Nel mezzo del cammino verso Roma

Gennaio 01
02:00 2008

Il Veglio di Creta è una delle allegorie più incisive e memorabili della Commedia. Dante e Virgilio hanno appena attraversato il sabbione infuocato dei violenti contro Dio e natura (terzo girone del settimo cerchio), dove, tra i bestemmiatori, giace ma si distingue – “dispettoso e torto” – l’irriducibile Capaneo. Quindi i due poeti giungono al punto da cui sgorga il fiume Flegetonte. Dante ne chiede notizia. Qual è, dunque, l’origine dei fiumi infernali? Ovvero: qual è l’origine del male, del dolore che mina alle radici tutto il mondo? C’è, infatti, un unico fiume che s’immea, precipitando di rupe in rupe nella cavità: è il pianto dell’Acheronte che si fa, poi, fango (Stige), riviera bollente (Acheronte) e gelo (lago Cocito). Ed è un pianto perché, oltre a raccogliere la pietà irredimibile dei dannati, nasce dalle lacrime che senza posa stillano dalle fessure del Veglio di Creta. Si tratta, spiega Virgilio, della statua colossale di un vecchio, eretta nell’isola di Creta, dentro il monte Ida (già culla di Giove), con le spalle rivolte verso Damiata (in Egitto) e gli occhi verso Roma, che guarda come suo “speglio”. Ha la testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il resto di rame (sino alla “forcata”), la parte inferiore di ferro e il piede destro di terracotta. Sta ritto più sul piede destro che sull’altro. Dalle fessure che lo segnano ovunque, fuorché nell’aureo capo, colano le lacrime da cui originano i fiumi infernali. È evidente il richiamo biblico al sogno del re Nabucodonosor (Daniele, II, 31-33), dove la statua, dall’aspetto invero “terribile”, simboleggia lo svolgimento cronologico dei regni umani, fino alla gloria eterna di quello messianico. Anche il Veglio di Dante, secondo diversi commentatori, rappresenta la natura dell’uomo segnata dal peccato originale, e quindi la sua trafila storica attraverso le varie età (la testa, così, alluderebbe alla mitica età dell’oro, ovvero all’innocenza dello stato di natura integro, prima del peccato). Altri sostiene la tesi del Veglio come allegoria dell’Impero romano, a partire dall’età aurea del principato augusteo. La “forcata” potrebbe raffigurare la bipartizione tra Impero d’Occidente (più fragile: piede di terracotta) e Impero d’Oriente (più stabile: piede di ferro). In tal caso, il Veglio trasuda lacrime per il dolore conseguente alla caduta dell’Impero d’Occidente. Tuttavia, se così fosse, non si spiegherebbe perché sta eretto più sul piede destro che sul sinistro, dal momento che, al tempo di Dante, manca oltre un secolo e mezzo alla caduta di Costantinopoli (1453). A meno che Dante voglia alludere all’immensa, indiscutibile autorità di Roma, benché non più paragonabile ai fasti antichi e priva non solo dell’imperatore ma, temporaneamente, anche del papa (la cattività avignonese durerà dal 1309 al 1377). E tuttavia, se il Veglio rappresenta Roma, perché guarda verso Roma? O lui non è Roma; o la Roma cui anela è un traguardo ideale, che appunto gli fa da “speglio” e importa un superiore ordine di idee, in cui s’iscrive la concezione etica e politica, e la visione stessa, che del mondo nutre il grande esule fiorentino. Altra, più classica tesi è che le lacrime del Veglio scaturiscono dai peccati commessi dall’uomo dopo la cacciata dal Paradiso terrestre; oppure, secondo l’interpretazione tomistica del Beda, dalle quattro ferite (vulnerationes) lasciate all’uomo dalla colpa di Adamo: infermità, ignoranza, malizia e concupiscenza. Proprio quest’ultima – indicativa dell’umana, colpevole fralezza – verrebbe simboleggiata, in particolar modo, dal piede di terracotta. Ma è forse più plausibile che i due piedi del Veglio rappresentino le due massime autorità allora contemplate: quello di ferro l’Impero (il potere temporale); quello di terracotta la Chiesa (il potere spirituale). La Chiesa è un piede di terracotta perché si è lasciata corrompere dal mondo, dimenticando la purezza evangelica delle origini, e perché insiste nell’arrogarsi una preminenza che è nociva alle sorti dell’uomo, oltre che indebita. Il piede è di terracotta, cioè fragile, anche perché non può e non deve sostenere, da solo, tutto il peso della statua. D’altra parte, il Veglio-Umanità poggia meno sul piede di ferro perché, tra i due, nonostante la materia che lo compone, è quello più infermo e manchevole, quanto a saldezza e stabilità. L’Impero latita, non è forte, non si fa sentire. L’umanità vive le conseguenze di questo squilibrio: malgrado il sacrificio di Cristo, continua a piangere le lacrime del peccato originale (non redento che a mezzo) proprio perché non poggia in egual misura, come invece dovrebbe, sull’autorità spirituale e su quella civile. Non a caso il Veglio si trova nell’isola di Creta, ovvero a metà, più o meno, tra Gerusalemme e Roma. Creta, il “paese guasto (…) sotto ‘l cui rege fu già ‘l mondo casto”, è il luogo che meglio rappresenta la condizione umana del “non più” e del “non ancora”: la sosta del cammino incompiuto, lo stato della mezza redenzione. E quindi, per converso, anche la soglia della salvezza: pur che si guardi a Roma. A Creta già si fermarono S. Paolo ed Enea: lì al primo, sbattuto in mezzo alla tempesta, un angelo predice che dovrà giungere a Roma, al cospetto dell’Imperatore; lì il secondo, interpretando erroneamente l’oracolo, si ferma a fondare Pergamena, credendo di obbedire al Fato che, viceversa, lo spinge verso le coste del Lazio. E come a S. Paolo e ad Enea, così all’umanità, che Dante vede più che mai ostinata nell’errore e smarrita dentro la tempesta, spetta compiere l’altra metà del viaggio verso Roma. Per questo è al traguardo di quel “termine ultimo” che guardano gli occhi del Veglio. A quello sguardo è demandata la salvezza. Non a caso gli occhi si aprono al mondo dalla testa che, nel Veglio, è l’unica parte in oro (a significare che la radice dell’uomo è viva, è integra, e la salvezza è ancora alla portata). La Roma ideale del grande sogno dantesco è la “città eletta da Dio” (come la definisce nel Libro Secondo del De Monarchia) dove dovranno convergere, per accordarsi a loro volta ed operare (autonome, ciascuna nel proprio ambito di competenza) le due grandi armonie della storia, simboleggiate dall’aquila e dalla croce. L’aquila e la croce sono coerenti fra loro, nell’ottica provvidenziale della storia, così come, per Dante, l’umanesimo pagano di matrice greco-romana e la rivelazione evangelica che sgorga, come uno splendido frutto di Luce, dal cuore stesso del mondo giudaico-cristiano. Il cammino provvidenziale dell’uomo ha già toccato il proprio culmine con l’Impero cristiano di Costantino, primo campione dell’aquila e della croce; tutta la storia successiva avrebbe dovuto risolversi in una statica conservazione di questo equilibrio, spezzatosi, poi, per le ingerenze di potere della Chiesa. Solo una Roma di nuovo cristiana ed imperiale, equamente rischiarata dalla luce dei “due soli”, nell’armonia suprema della croce e dell’aquila, potrà completare il cammino di redenzione, sanando la ferita del peccato originale. Il Veglio ha le spalle volte ad Oriente, il petto ad Occidente e gli occhi a Roma. È qui che dovrà celebrarsi la riconciliazione dei due emblemi, e dunque scaturire la saldezza morale e civile indispensabile a un governo unitario e coerente, ovvero alla giustizia e alla pace tra gli uomini, per fare di nuovo il mondo “buono” e asciugare, una volta per tutte, le lacrime del Veglio.

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