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Una silloge della poetessa bielorussa Aksana Danilčyk

Una silloge della poetessa bielorussa Aksana Danilčyk
Dicembre 03
17:20 2019

C’è, in questa silloge della poetessa bielorussa, una forte atmosfera mediterranea, direi italiana, sia per la sua conoscenza della nostra lingua (ha tradotto, fra gli altri grandi, il carme Sepolcri di Foscolo), sia per l’amore che porta alla nostra cultura (e, all’interno della raccolta, cita Antonioni, Pavese, Primo Levi, Campana etc.); ma – nonostante la neve e i ghiacci che formano alcune sue strofe più belle – Aksana ha un cuore mediterraneo, e lo dimostra nella più bella lirica della raccolta: Caronte, ove la tenerezza si fonde con l’oscurità infernale in un gioco di “speranze-disperate”, quasi una sineciosi dell’anima, in quella straordinaria invenzione dell’uccellino sulla spalla del vecchio “dimonio“. Una pietas latina pervade non solo il climax intero dell’opera, ma un forte impegno sociale, uno sdegno civile (vedi la bellissima La stazione, ove la metafora imprime nel sentimento un divieto “a priori”, e lo struggente tema sulle donne russe). Il suo sguardo, però, spazia sui misteri dell’immensità celeste, sul deserto che vive e domani non è più quello che è oggi (simbolo dell’eterno mutamento delle cose, del greco “panta rhei“). Versi quali “Un abisso c’è sotto di te/ e un abisso c’è sopra“, dimostrano lo spessore pensoso della poetessa, che si traduce in immagini (La poesia è nel contesto delle tue braccia) e in desolanti visioni della solitudine umana (vedi Per le strade vuote solari).

Ora, se dovessi definire l’humus poetico di Aksana Danilcyk, dovrei introdurre anche il discorso inevitabile sia delle fonti sia della sua terra, il suo Paese, da noi poco conosciuto nella sua storia e nella sua cultura. Aksana è una donna nordica e orientale rispetto a noi. Ebbene, anche se il suo interno sentire si è nutrito delle calde grandezze italiane, non è un caso che la parola “ghiaccio” entri nel titolo della silloge come un monito, un esergo, un “publicetur“. Ecco che le fonti si perdono in un lungo rosario di secoli, sebbene io creda che Aksana ami il presente o il passato prossimo culturale. Tuttavia, dal fermento espressivo io noto un sentore shakespeariano e dantesco. È questione di affinità elettive. Ho la sensazione plastica di trovarmi fra mano un involucro nevoso-ghiacciato che sta per sbrinarsi, e crocchia, “al sol si dissigilla”, e ne scaturisce ambra anziché acqua come ci si aspetterebbe: ecco una forma nuova di fare e dare poesia. La quale non si può ricreare nella critica, ma solo indicare nella sensazione che essa ha dato al lettore-critico. All’inquisitore senza rogo. Eppure il rogo si è acceso, ma non per mettervi il libro di Aksana, bensì, al confronto di esso e della sua purezza stilistica, tante raccolte inutili che non dicono nulla e quindi non devono intasare il cammino a chi fa suonare certe corde recondite del nostro animo, come nella presente silloge.

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