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Perché parliamo inglese se siamo italiani?

Marzo 02
18:25 2022

Nel 2005, indignato per l’esclusione della lingua italiana da tutte le conferenze-stampa dei commissari UE ordinata dal presidente dell’Unione Europea di allora Josè Manuel Barroso (ad eccezione di quelle che si tengono il mercoledì, unico giorno in cui era garantita la traduzione delle principali lingue dell’UE), scrissi un articolo dal titolo Dove va la lingua italiana? piuttosto sarcastico e pungente nei riguardi del nostro vizio di ricorrere sempre più, in maniera ingiustificata, all’uso di parole inglesi pur possedendone le corrispondenti nella nostra lingua. L’articolo fu piuttosto apprezzato sul web (anche dall’Accademia della Crusca), tanto che Corrado Rizza mi chiese il permesso di ripubblicarlo come appendice al suo delizioso libretto intitolato Perché parliamo inglese se siamo italiani? Dopo quasi vent’anni mi sembra che le cose non siano migliorate, anzi che stiano precipitando seguendo un percorso altrettanto demenziale (anche se in senso opposto) di quello seguito durante il fascismo nel processo di autarchia della lingua italiana, felicemente ridicolizzato da Antonio Castellani in un suo recente articolo apparso su «ArteScienza» N.13 giugno 2020 (Quando dare del “lei” diventò un reato). Come spesso accade, risulta evidentemente difficile mantenere il giusto equilibrio, sensato e razionale, piuttosto che cedere a spinte emotive, a disegni politici demenziali (come nel fascismo) o, come ai nostri tempi, a mode, al desiderio di un illusorio rinnovamento fatto di ruberie di ciò che non è nostro piuttosto che di qualcosa di creativo e nuovo. Difendere la propria lingua, senza scivolare nelle farneticazioni idiote del fascismo, non significa essere nazionalisti nel senso peggiorativo del termine, bensì significa salvaguardare la propria identità culturale, che è il carattere dell’appartenenza a un gruppo che lo contraddistingue come nazione distinguendolo dal suo essere semplicemente appartenente a uno stato. La Svizzera è uno stato, ma non una nazione. Questa identità culturale, composta di cose grandi ma anche piccole, è perfettamente conciliabile con una concezione cosmolita della società moderna. Un concetto che abbiamo dimenticato ma che era ben radicato più di mille anni fa nell’Impero Romano. Controllare l’uso indiscriminato e ingiustificato sul piano semantico di anglicismi non è soltanto una questione culturale di principio ma anche pratica. In una società come la nostra, sempre più popolata da anziani, utilizzare termini inglesi corrispondenti a parole italiane di uso comune significa porre molti anziani di fronte a un “mistero linguistico”. Un esempio pratico: quanti anziani (ma non solo…) di fronte al botteghino di un teatro capirebbero cosa significherebbe una bella scritta cubitale SOLD-OUT, in luogo di un banale POSTI ESAURITI? Un altro esempio che rasenta veramente il burlesco: BOOSTER per indicare il richiamo di un vaccino. Una vecchietta di mia conoscenza mi telefonò tutta allarmata per chiedermi se era il nome di un nuovo vaccino anti Covid-19. Ho dovuto rassicurarla, spiegandole che poiché i nostri governanti amano molto la meccanica, e in particolare quella applicata alle imprese spaziali, hanno preso in prestito il termine usato in aeronautica per indicare un razzo usato per fornire la spinta  necessaria a staccare il veicolo spaziale dalla rampa di lancio. E la vecchietta, tutt’altro che rassicurata: «E io che sono, una navicella spaziale? Dove mi vogliono spedire questi bastardi?».

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