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“Cose sfiziose” di Fabrizio Bianchini

“Cose sfiziose” di Fabrizio Bianchini
Marzo 01
02:00 2008

Tra i vari libri pervenutimi, figurano due romanzi di Bianchini ambientati nella provincia di Macerata, contigui ed editi entrambi dalla Cicorivolta edizioni. Ho sorvolato il primo, dando per usurato il ricorso agli anni Settanta, per passare direttamente al secondo, il più recente e che prende in prestito il titolo da Stephen King. Cose sfiziose, anche in questo caso, non è che un negozio, un sexy-shop che arriva improvvisamente a turbare la quiete degli inquilini di uno stabile, e il suo gestore, anche se non è proprio il diavolo in persona, vanta pur sempre una qualche parentela d’oltretomba. L’elemento giallo è preponderante, tanto che il libro è stato già premiato concorrendo in questo settore, ma mai determinante. Non si rinuncia a pennellate di fantastico e qualche pipistrello per meglio condire l’intero intrigo. Ne fuoriesce una parodia chiassosa e irridente, che talvolta riconduce persino al reale. Un reale asfittico e abominevole, come la vita condotta dai personaggi che, nelle varie sfumature, vanno e vengono sovrapponendosi nell’angusto spazio di una platea condominiale. Gran parte del testo si basa su dialoghi, per lo più ben sviluppati in uno stile asciutto ed omogeneo, senz’altro scorrevole, ma limitato alle paludi di un supposto minimalismo: non basta leggere Carver per coglierne l’anima. Nel grigiore della degenerata contemporaneità, lo scrittore americano lascia sempre trapelare una forte dose di poesia dalle screpolature delle vite descritte, anche se prossime all’apocalisse. Con Bianchini, tutt’al più, ci si trova a ridicolizzare la poesia, a partire dalla non originalissima trovata degli inserti in versi, frutto di una resa scenica condizionante persino pensieri e ispirazioni dei protagonisti. Tutto ruota intorno al rinvenimento del cadavere della poetessa Bonavoglia, incallita divoratrice di piazzamenti ai concorsi di poesia. Perbenista in prima linea contro il sexy shop, viene scoperta accanto ad un bambolo con il ronzio del marchingegno di un fallo ancora attivo. Mirko, il mai celato assassino, è un presunto colto cinico schizoide e sadico. Con lui emerge il faccendiere e l’artista frustrato piuttosto che il maudit ostentato. Di Cataldo, l’amministratore e capro espiatorio del comune malcontento, si dimena tra una moglie “ippopotamo” e represse latenze omosessuali. Lui è il perdente, ma è nella disgrazia che sarà in grado di ritrovare se stesso. Carlo Maria, ossessionato dal sesso e dalla Giannelli, è il vincente di tutta la vicenda. Eterno figlio accasato con i genitori, sopravvive facendo la cresta. Nel gran finale riuscirà a coronare tutti i suoi desideri, con tanto di epilogo amoroso! La Giannelli, zitella vanesia con madre autoritaria paralitica, è l’oca di turno vittima dei macabri raggiri di Mirko. Rilevante l’omino delle pulizie (il semplice di tutta la storia): è quanto di più sensibile catalogato insieme a Di Cataldo. Approda allora, taumaturgico, un vampirismo residuo, surrogato di possibile umanità. Tamburo, il carabiniere ex adolescente rockettaro, e il padre, maresciallo in pensione, ricalcano la consumata visione dell’archetipo conflittuale padre-figlio. Piroettano inserti di personaggi che ritornano, ciclici, incrociandosi vicendevolmente in una farsa in cui, gli stacchi di rigo, altro non sono che cambi di scena in cerca di un posto al sole. Prorompe l’aspirazione poetica più patetica, fatta di concorsi e riconoscimenti a cui, nonostante tutto, neppure l’autore sa rinunciare. Si apre e si chiude, per la gioia di chi avesse la sfortuna di vivere in abitazioni autonome, con due verbali di assemblea straordinaria. Per la cronaca, un Bianchini con una ditta di pulizie compare anche nella narrazione, con Colacci frequenta una libreria dove finisce Di Cataldo. Restano sullo sfondo della vicenda per pochi istanti, ma si apprende che sono entrambi imprenditori con “arie da scrittori”.

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