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“Antebe”, di Marco Onofrio

“Antebe”, di Marco Onofrio
Gennaio 08
23:00 2008

pallotta-antebeDell’opera pucciniana “Tosca” fa parte un brano celebre dal titolo “Recondite Armonie”. È al suono di questa musica dolcissima che paragonerei l’opera “Antebe”, l’ultimo regalo che il poeta Marco Onofrio ha fatto a noi tutti. Ma il “recondito” non vive fra le pagine di questa silloge, poiché tutto è descritto in modo magistrale: la trasparente dolcezza dell’armonia fa da scenario a versi così avvolgenti e struggenti che solo le note musicali sono in grado di darci. Marco Onofrio è un poeta che mi fa parlare: rende la mia mente, mentre leggo i suoi versi, come un albero in fiore che emette suoni, colori e sensazioni all’arrivo di una primavera insperata e ancora sconosciuta.

Tutto ciò perviene da un desiderio interiore così forte che nessuna parola può esprimere, anche perché impoverirebbe il fluire continuo di un filo di seta, fino a diventare quella parte eterea a cui nessuno può aspirare, se non si compenetrasse e si confondesse tra le liriche di “Antebe”.
L’opera di Marco Onofrio, dal sottotitolo “romanzo d’amore in versi”, richiama in modo originale lo stile petrarchesco. Ha il ritmo di un classico dal profumo antico, di un ritorno al “bello” e al “puro”: per questo riesce a distinguersi da altre pur valide sillogi poetiche. Infatti il poemetto si impone mentre sembra suggerire all’orecchio “non dimenticarmi”: e non dimenticare “come sa di sale lo pane altrui”. Marco Onofrio non ama nascondersi, se non dietro pregnanti metafore poetiche. Qui esprime e dichiara l’Amore, nei suoi vari aspetti, come un prisma prezioso dalle mille sfaccettature. Da questo punto inizia lo scritto, e note ballerine accompagnano la liricità dei suoi versi, che il lettore segue in modo trascinante, voglioso di seguire quel famoso filo di seta… Un “Orlando innamorato” in tempi moderni, un poeta che ha disdegnato e fatto tacere la tecnologia dei giorni nostri per far parlare il suo cuore e, fatto ancora più rilevante, spogliarsi della sua anima. Quale tribunale, se non quello terreno, potrebbe dissetarsi così tanto, fino all’ultimo verbo di questa silloge e, dopo aver chiuso l’ultima pagina, avvertire la sensazione di una nuova luce dentro? Perché Marco Onofrio ti lascia anche la voglia di scrivere, e di riflettere, e di mettere un paio di occhiali nuovi con cui guardare ciò che ci circonda.
L’Amore, tema principe della silloge, è puro profumo cavalleresco dinanzi alla donna amata, (donna-compagna, donna-amante, donna nelle sue forme corporee perfette, donna-comprensiva, donna-amabile, donna-amica), che partecipa di questo sentimento così forte da non sembrare terreno, ma intriso di soprannaturale, di divino. La caducità della vita porta il poeta a cogliere la bellezza di ogni momento, di ogni emozione: la cattura e la fa sua, per trasformarla in lirica eterna. Tutto è eternizzato, tutto interiorizzato, nel contesto di un tema così difficile da trattare; si rischia facilmente di cadere nella banalità, parola “bandita” in “Antebe”, dove l’amore impera, si impone e travolge come una cascata che si pettina i capelli d’acqua.
Altro aspetto bellissimo: l’amore-gioco. Ci si ama correndo attraverso il cosmo, che il poeta conserva come punto fermo e fa girare per il suo e per il nostro piacere, attraverso delicate melodie; ci si ama nel verde dell’erba… “Ti voglio bagnare di me/sarà l’abbraccio della pioggia con la terra”: espressione del dono d’amore che il poeta fa alla donna amata, esprimendo in questo modo la totalità della sua dedizione, riflesso del più completo degli atti d’amore.
Ci si ama sulle rive di un orizzonte marino che ne contiene un altro, ed entrambi sono come due versi paralleli che viaggiano insieme: ma questi si incontrano, fanno eccezione alle regole matematiche, e si uniscono come le nuvole, per amarsi sotto un cielo senza fine. L’autore ferma la bellezza della vita e la identifica attraverso l’amore – che mette in fuga ogni angoscia, ogni dolore, poiché sopravvive alle forze negative -, ritrovandolo all’alba del giorno dopo, tenendolo fra le mani come energia vitale e sempre per ricominciare, unendo virgola a virgola, ignorando il punto fermo. Inaspettato, poi, e quanto mai veloce l’alito che spegne il Paradiso, costruito e vissuto insieme con il verso… «Sarà la frase classica di “stanca”, ma/non ci capiamo più da qualche tempo»…
La sorpresa! Dopo il divino, tocchiamo il freddo grigio della realtà, che ci porta, peraltro, a non poter interrompere (men che mai ora) il flusso della lettura. Questa la piccola “astuzia” di Marco, il quale parla non a caso di “romanzo”, pensando forse all’incitamento che nasce e si rinnova dal desiderio di conoscere l’epilogo della luce iniziale, che va man mano affievolendosi.
Cala il sipario, ora è buio e silenzio: come fiori di loto galleggiano le dolorose “rimembranze leopardiane”. L’abisso e il confine si tengono per mano fra due sole, terribili parole: “È finita”. Da questo punto inizia la dolorosa epopea della “mancanza”. Ed è come entrare in un acquerello che mostra colori spenti: e, attraverso gli occhi di chi lo osserva, c’è solo notte irrimediabile, senza luna e senza stelle, e il cosmo scompare dinanzi a noi, attoniti. La disperazione e l’abbandono che il poeta dichiara sono estremamente sinceri, tanto da fargli cercare l’illusione che, in fondo, il tempo forse potrebbe, come per magia, far tornare il giorno, il Paradiso: perché perderlo, quando si ha la ventura di trovarlo? Emerge, fra i vari sentimenti, l’inevitabile rabbia, che si alterna ad epiteti pensati e mai dichiarati, come una sorta di monologo amletico, che un giorno ti porta davanti alla persona amata, la stessa che ti ha lasciato preferendo un altro a te, e ha il coraggio di farti conoscere il suo nuovo amore.
La maschera è d’obbligo e sconfina nella convenienza, nell’usualità di certe parole che si dicono in momenti di gelo come questo, che il poeta vive e di cui scola fino in fondo l’amarezza. Parole che escono dalla bocca senza essere guidate dall’autore, in apparenza un estraneo, quasi assente, come qualcuno che assiste ad una scena di cui non è protagonista, e neanche spettatore. Questo è il momento in cui le rette diventano parallele: il suo pensiero non raggiungerà mai il suo comportamento… L’Ulisse disperato ritorna in patria, senza trovare chi lo accolga, o quanto meno ascoltare il dolore che gli fa ombra. Tutto diventa sogno ancora, sogno dolce, passato nella pagina del ricordo che lo fa ancora soffrire e vive nei suoi gesti quasi rallentati, a dimostrare che per lui il mondo non viaggia più frenetico come prima, quando l’amore gli viveva accanto e dentro: persino il suo viso ha i tratti di una spiaggia invernale. Permane l’armonia, che si fa più pacata ma non ingiallisce come un fiore – bagnato di pioggia, con la corolla piegata dal destino -, e che non lascia mai i versi, anche se pregni di sincera malinconia, accompagnata da lucido equilibrio mentale. Uno specchio, una musa, “Antebe”: qualcosa forse mai esistito per l’autore, che la sofferenza fa parlare per sedare la spina più dolorosa – necessità di un rifugio, nel reinventarsi – e si accomiata in un modo originale e significativo, con una riflessione, con tante riflessioni chiuse in una sola, sorprendente espressione … “Antebe in fondo sono io”…

Marco Onofrio (www.marco-onofrio.it): Antebe. Romanzo d’amore in versi, Roma, Giulio Perrone Editore, 2007.

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