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Carducci tra letteratura e poesia

Marzo 01
02:00 2008
Sfogliando le pagine di un libro di storia, può succedere a volte d’imbattersi nella riproduzione di un quadro che raffigura la fucila­zione di Massimiliano d’Asburgo. Anche se quasi certamente non ha potuto ammirare il dipinto, Giosuè Carducci, di cui nel 2007 è ricorso il centenario della morte avvenuta il 16-2-1907, rimase a lungo colpito dall’evento, che del resto aveva destato vasta eco nell’opinione pubblica. Attento agli avvenimenti del suo tempo e ancor più al loro significato storico, il poeta non tardò a dedicare all’evento una sua ode: veramente l’ispirazione, per sua confessione, gli sorse alla vista del castello di Miramare a Trieste, durante una visita alla città.Subito nella composizione l’immagine del castello si associa a quella di Massimiliano, che vi abitò insieme alla consorte Carlotta del Belgio; nel contempo vengono evocati i presagi funerei, che saranno avverati dalla fucilazione, quale esito tragico dell’impresa nel Messico. Gradualmente poi s’impone il tema della Nemesi storica, che sarà uno dei motivi che circoleranno nel dispiegarsi della poesia carducciana: ed è quando dal buio dei secoli emerge con forte evidenza il volto fiero dell’Inca Montezuma, spodestato e umiliato dai conquistatori spagnoli, e che ora sembra trovare pace nella morte di un discen­dente di quel potere, che tante sciagure aveva recate al suo popolo. La poesia fa parte delle “Odi Barbare”: l’aggettivo fu scelto dallo stesso poeta perché a suo dire tali sarebbero parse ai poeti greci e latini se avessero potuto leggerle. Insieme alle “Rime Nuove”, che contengono precedenti raccolte, le Odi Barbare costituiscono i due gruppi di opere, in cui si può dividere la produzione poetica del Carducci. Nel mezzo stanno “Giambi ed Epodi”, vigorosi componimenti in cui prevalgono toni accesi e polemici, contro la meschinità della vita civile e politica del tempo. Successivamente il Carducci riprese a comporre in rima nella raccolta dal titolo “Rime e Ritmi”, quasi a suggellare la sua opera con la sintesi di quelle che erano state le fonti del suo operare poetico: le rime, ove il modello è dato dalla tradizione medioevale e ‘romanza’, e i ritmi, che sono quelli ripresi da modelli greci e latini. Nelle Odi Barbare il poeta toscano s’immerge nell’antichità classica, in special modo attingendo ai metri di Alceo, Saffo, Virgilio, Orazio. E con maestria tecnica originale tenta di riprodurne i ritmi con i versi della poesia italiana: in questo preceduto da tentativi simili operati dall’Alberti e dal Chiabrera. L’operazione non soddisfece del tutto lo stesso Carducci, da cui il nome di Odi Barbare, per i motivi di cui si è detto: soprattutto l’impresa fu resa ardua dal fatto che la metrica classica è basata sulla quantità dei piedi, mentre il verso italiano procede con l’accento tonico sulle sillabe. Tuttavia alla lettura ne risultano visioni di grande ampiezza e accesi colori, d’un ritmo preciso e scandito che scolpisce a tutto tondo le immagini, con aperture di paesaggi ariosi e d’intensa suggestione, nella memoria di lontani eventi storici. E qui si pone il problema che investe l’intera opera carducciana, che molti critici anche autorevoli hanno definito professorale, enfatica, retorica, ritenendo il Carducci incapace di disfarsi del bagaglio della sua vastissima erudizione: un poeta letterato o al più poeta della letteratura, come si espresse il Croce. Pur ammettendo che in molte parti della sua opera l’enfasi retorica non manca, è da considerare tuttavia che la tradizione letteraria è per Carducci inscindibile dall’ispirazione più genuina. Il poeta toscano è in effetti uomo di veementi passioni, d’un sentire intenso e profondo, capace di affetti fortemente sofferti: tutto questo però per darsi veramente a conoscere, purificarsi e manifestarsi nella sua essenza, ha bisogno del filtro della poesia classica come di quello della letteratura alta della nostra tradizione. Pertanto non è che il Carducci sia il poeta della letteratura, piuttosto egli è il poeta che attraverso la letteratura vede meglio il mondo, per così dire reinventa le cose e il loro senso, ritrova se stesso nel vocabolo a lungo vagheggiato, nel verso che comunque sempre rimanda a qualche illustre precedente nella tradizione: la letteratura acquista così un valore per così dire gnoseologico, in quanto presta i suoi occhi, le sue forme, la sua codificata perfezione al poeta nel dar vita ai suoi modi espressivi; gli consente di conoscere poeticamente il reale. Restituita così al Carducci la sua statura di poeta vero, c’è da notare che egli mai rinunciò a costruire con paziente sagacia la sua statua interiore; un’immagine di sé che proiettata all’esterno si concreta in quella del Vate: una figura di cui la borghesia media e piccola dell’Italia di allora aveva forse bisogno, come riscatto da una realtà politica e sociale che poneva la nazione e la sua cultura in un ambito provinciale, ove serpeggiavano fermenti di rivalsa velleitaria che di lì a poco sfoceranno nell’impresa africana.
Tornando alla sua poesia, c’è da dire che se nelle “Rime Nuove” prevalgono i temi dei ricordi personali, delle esperienze giovanili e della maturità (si veda il bellissimo sonetto “Traversando la Maremma toscana”) non disgiunti da una sentita partecipazione ai temi storici e politici; nelle “Odi Barbare” ad aver risalto sono le memorie storiche, le grandi visioni naturali, insieme ai toni più spenti e umbratili d’un sentimento del morire delle cose e dell’abbandono. Un esempio nel primo senso è offerto dall’Ode “Alle fonti del Clitumno”, che sembra quasi avere un andamento musicale: all’inizio in un tempo che si potrebbe paragonare ad un ‘andante con moto’, l’Evocazione della serenità agreste, dove ai gesti forti e solenni del pastore-contadino nello spingere il ‘plaustro’ e aggiogare i buoi dal ‘quadrato petto’, si giustappone l’immagine del piccolo che risponde al tenero riso della madre ‘adusta’. Succede un tempo che potremmo assimilare ad un ‘Allegro con brio’, in cui vengono rievocate le battaglie all’ombra dei frassini delle fonti, per cui tre imperi si susseguirono: ai forti Umbri gli Etruschi e a questi i Romani a imporre pace e legge. Più oltre il racconto poetico si fa ironico e sarcastico, quasi un indiavolato ‘scherzo’ dai ritmi puntati: è il momento in cui è rappresentato l’ergersi tetro della croce, che scaccia ninfe e satiri dai boschi, sospinge il popolo alla penitenza e alla rassegnazione, fino a farlo lieto di ‘essere abietto’. Infine un ampio ‘largo’, un ‘adagio’ in cui la visione si placa nella contemplazione della storia: ‘tutto ora tace, o vedovo Clitumno’; il poeta si distende in un saluto alla bellezza armoniosa del paesaggio, mentre si compiace al ‘vapore’ che irrompe a simboleggiare il progresso. Esempio dell’altro senso di cui si diceva, può considerarsi l’ode “Alla stazione”: qui il poeta tocca i tasti di una dolente malinconia, d’una privazione del senso del vivere, sentimenti con cui di rado s’era misurato. Il treno è visto mentre sta per partire, quasi mostro mitologico che gli rapisce la sua Lidia, pseudonimo sotto cui si cela Carolina Cristofori Piva, la donna amata che con quel nome catulliano spesso ritorna in vari luoghi della poesia carducciana. Il poeta è ravvolto in atmosfere opache, d’un’alba invernale livida, ove gli oggetti sembrano disfarsi, i contorni dissolversi, una nebbia fumosa penetra ovunque, trafitta da fanali che diffondono una luminosità d’angoscia. E un tedio profondo invade l’anima del poeta, che quel tedio vorrebbe far durare infinito e in esso finire. Versi che dicono della modernità quasi involontaria del Carducci che pericolosamente lo accostano ai climi dello ‘Spleen’ parigino, evocati da Baudelaire, quasi un’eco in lui di quel decadentismo d’oltralpe, altrove tanto duramente osteggiato. Non si può da ultimo tacere della copiosa produzione in prosa del Nostro: oltre alle dottissime ricerche di filologia classica e ‘romanza’, va ricordato quel piccolo gioiello che è “Le risorse di S. Miniato”: qui il poeta si mostra negli anni giovanili, quando insegnava alla scuola locale: immagini assai vivaci, che ci restituiscono una giovinezza lieta ma non spensierata, la compagnia di amici devoti, tra vino, scherzi, allegre scampagnate: sempre comunque col pensiero agli studi che dovranno recargli in dono il sorriso delle Muse.



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