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Certezza della pena e interesse collettivo

Novembre 08
23:00 2008

Il Parlamento ha chiuso i battenti, forse è questo il momento più propizio per riflettere sulla funzione del carcere, senza il sibilo fastidioso delle strumentalizzazioni.
In Italia, di pena e di carcere si parla poco e male, come se il “recinto chiuso” fosse una periferia da rimuovere, da annotare su una pagina stropicciata e illeggibile. I reati diminuiscono, ma la percezione di insicurezza aumenta, in rete la quota di allarmismo quotidiano straripa pericolosamente, formulando la pretesa di risolvere ogni questione con la galera, con la pedagogia dell’asprezza.
Come se a una doverosa esigenza di giustizia da parte della vittima, non dovesse corrispondere l’onestà intellettuale di una pena erogata con umanità, quanto meno per tentare di ricomporre la relazione tra le persone secondo reciprocità e responsabilità.
La certezza della pena deve comunque riconoscere l’importanza di un percorso di cambiamento, che non è realistico se non garantito da passaggi formativi e relazionali che spingono non solamente a apprendere quanto il proprio passato sia stato errato, ma anche a sentire il bisogno concreto e autentico di essere finalmente in relazione con gli altri.
Quanto c’è ancora di intuitivo e positivo del fare reciproco tra il dentro e il fuori, tra gli operatori penitenziari e i detenuti, per avere fiducia e forza sufficienti a mantenere alto nella sua dignità quel patto di lealtà stipulato con la collettività.
Quanto è ancora realmente condiviso il concetto che esiste un prima e un dopo, che passa necessariamente attraverso un “durante” carcerario solidale perché costruttivo, non certamente vendicativo al solo scopo di placare momentaneamente la richiesta di sollievo di una società confusa e perplessa, ma basato su una progettualità educativa.
È un cane che si morde la coda, come per il disagio giovanile, per la droga, per i morti e le tragedie sul lavoro, sulle strade, si invocano norme intransigenti ma confidando sui soliti investimenti residuali, peggio, si configura un disincanto educativo a vantaggio di un non meglio specificato obiettivo condiviso, quello della cementificazione delle coscienze, come se limitarsi a rinchiudere dentro una cella l’errore e l’inganno, potesse vincere la sofferenza per l’ennesimo accadimento tragico, come se nella riproposizione di una sordità trattamentale, vi fosse insita la chiave di accesso per riconsegnare all’opinione pubblica equilibrio e dignità.
Dimenticando che in carcere, se il detenuto è collocato nella stessa condizione di quando vi è entrato, non solamente permarrà nell’indifferenza verso chi ha offeso, ma anche nell’impossibilità di comprendere il valore come persona e dignità umiliata.
Sul carcere c’è tanto da fare più che da dire, soprattutto c’è tanto da sapere e conoscere per poter intervenire con la giusta volontà politica, ma la politica appare incapace di concorrere alla formazione dell’opinione pubblica, è più concentrata a moltiplicare i luoghi comuni, gli stereotipi possibili e impossibili, e ciò comporta una sequela infinita di rinculi, una confusione sugli interessi collettivi che ne tutelano diritti e garanzie.

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