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“Corpi-Prigioni”, Teatro Di Documenti

“Corpi-Prigioni”, Teatro Di Documenti
Marzo 02
15:03 2011

Corpi-PrigioniDal 23 al 27 febbraio al Teatro Di Documenti a Roma, il nuovo spettacolo diretto da Camilla Migliori ha messo in scena un testo, firmato da Stefania Porrino, che fonde i generi della narrativa e del teatro. Alla modernità della dimensione meta-teatrale ovvero di un teatro che parla di sé dichiarando sulla scena il gioco dei propri espedienti segue ora un nuovo discorso teatrale che dà voce e corpo ad alcune delle immagini mentali che da sempre offre una buona scrittura letteraria, conferendo così un valore aggiunto al già solido connubio tra parole e immagini. I protagonisti Viola e Vasco, interpretati da Evelina Nazzari ed Edoardo Persia, si alternano a raccontare ciascuno il proprio vissuto, ma il loro flusso di coscienza appare guidato da un terzo personaggio – un narratore interno alla cornice del racconto – che a tratti interrompe ponendo un freno all’inquietudine interiore dei due. Nelle sfrenate corse contro il tempo Viola si ritrova prigioniera di un “dialogo interno” di cui le sfugge il controllo: in preda a continue preoccupazioni come quella di pagare bollettini di associazioni umanitarie, all’improvviso ella si ferma e si chiede quanto le interessi davvero aiutare gli altri e quanto invece il suo gesto sia una sorta di scaramanzia per attrarre buona sorte. Dopo essere stata vittima di un incidente stradale il doppio sguardo di lei si estranea distaccandosi dal corpo avvolto in un letto d’ospedale accanto al quale vede seduti il padre e l’ex-marito. Di fronte alla domanda di questo sul perché si siano lasciati, Viola si chiede se sia sua la colpa della loro separazione e perché lui non l’abbia fermata, ma il narratore giunge a interrompere il flusso di pensieri che hanno alterato la sua percezione del mondo ed ella inizia a rendersi conto di essere stata annebbiata dalla paura di non contare abbastanza per nessuno e di aver scambiato per indifferenza l’orgoglio di lui, che aveva preferito lasciarla andare piuttosto che chiederle di restare. Egocentrica e immatura per aver inseguito ideali di perfezione e modelli razionali di pensiero maturati sin dall’infanzia, ella sente la parola “proibito” risuonare per la prima volta in lei come estranea: proibite le vie di mezzo – “tutto o niente” era divenuta la sua regola – come proibito è essere semplicemente quello che si è. Lei e suo padre non riuscivano a comunicare? Lei non poteva ascoltarlo giacché lui era strumento, seppur inconsapevole, del suo bisogno di sentirsi incompresa e sperimentare la mancanza di amore: il suo bisogno, in realtà, era coprire o forse proteggere il suo sconvolgente amore per la vita. Ella si rende conto di essere stata fino a quel momento prigioniera del suo corpo, aggrappata alle certezze di questo in un rapporto di amore e odio. Il narratore presenta infine Viola come una persona diversa, paga e libera da ogni tipo di condizionamento. Al racconto delle vicissitudini interiori di lei si alterna quello di Vasco, che nello stesso giorno dello stesso anno uccide un uomo. Anche per lui quel giorno decide il suo destino e la sua vita cambia in meglio anche se non sembrerebbe a giudicare dalla prigione a cui viene condannato per venti lunghi anni. Ricorda il suo passato e il desiderio forte di fare qualsiasi cosa pur di cambiare quel mondo apparentemente ordinato in cui si era sentito costretto a vivere; un desiderio che lo aveva portato, senza accorgersi, a rinunciare alla propria libertà ponendosi al servizio di un’organizzazione terroristica che utilizzava la sua genuina motivazione ideologica per i suoi principi iniqui. Per questo, durante un agguato, egli era giunto ad uccidere un uomo che sapeva troppo ed era pericoloso per l’organizzazione. Il narratore interrompe il flusso dei suoi pensieri e la sua coscienza inizia a risvegliarsi: nessun ideale può valere la vita di un uomo. Egli lo ha ucciso per salvare l’organizzazione e non se stesso, giacché la sua libertà già da tempo non gli apparteneva più; proprio al momento della condanna Vasco sente che da quel giorno avrebbe finalmente imparato a essere un uomo libero: libero di essere se stesso al di là del bene e del male; libero dall’obbedienza a organizzazioni che nascondono una vacuità di intenti dietro a ideali collettivi di giustizia secondo cui il singolo caso non ha peso quando sono in gioco la libertà e i diritti di un popolo. Le ali della libertà e dell’amore a volte ci spaventano perché il loro godimento impone un prezzo molto caro, l’accettazione dell’incertezza e del rischio di sprofondare come cadendo dal cielo; spesso allora vince la paura, il non coraggio, il bisogno rassicurante di cullarsi nella cecità di un non amore che seppur negativo è pur sempre una certezza. Allo stesso modo vince il bisogno di un corpo-prigione come alibi, schermo per opporre resistenza. Pensiamo che il nostro corpo sia tutt’uno con l’anima, ma non ci rendiamo conto che a volte questo prende il sopravvento, così diventiamo prigionieri di esso e delle immagini che la mente vi proietta. Le emozioni si offuscano, si calpestano perché non riusciamo a farle vivere in noi, a lasciarle fluire nel nostro corpo magari con dolore, a permettere che solo lo attraversino per lasciare di esse nient’altro che la memoria. Voltiamo le spalle al mondo sentendoci esclusi e vittime quando questo ci sta cercando e anzi ha bisogno di noi come delle nostre emozioni. Basterebbe un semplice sì alle incertezze di una vita che è meravigliosa proprio quando un brivido o un tremore ci coglie facendoci comunque sentire vivi. “Non è facile liberarci da limiti che non vogliamo accettare e che noi stessi ci siamo costruiti” confrontandoci con inutili ideali di perfezione che da piccoli ci sono stati impressi. “Saremo liberi solo quando ci saremo riconosciuti prigionieri” e avremo provato compassione anche verso noi stessi: nel commento finale il narratore-regista invita a lasciare che mente e sentimenti fluiscano tra le persone, liberi dai loro corpi. La scena, opera di Alessandro Ciccone, si caratterizza per pochi elementi essenziali, qualche panchina, il tavolo di un bar e qualche sedia, ma soprattutto simboliche figure di cartone di fronte alle quali i due protagonisti parlano come davanti a uno specchio con il proprio alter ego. Una sorta di ombre che il terzo personaggio, interpretato da Giulio Farnese, d’improvviso sottrae ai due protagonisti che, privati del loro intimo specchio, finalmente si incontrano per specchiarsi l’uno nell’altro: i due racconti paralleli si intrecciano e le due anime si uniscono al di là della cronaca che li divide – lui un omicida, lei una semplice vittima. L’intimità del loro dialogo dimostra la vacuità di una sorta di velo che troppo spesso copre la verità delle essenze.

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