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Il discorso del Re

Aprile 27
07:16 2011

La sera prima che lo splendido film Il discorso del Re portasse a casa una cesta piena di Oscar, sono andato a vederlo in quel piccolo miracolo di sala cinematografica che Nanni Moretti ha allestito a Roma per il nostro e il suo piacere. Ad un tratto, mentre le immagini scorrevano, ho sentito uno strano pizzicore alla gola, come una sensazione di calore sotto la laringe, come un bruciore che velocemente risaliva fino agli occhi. Mi sono stupito. Mi stavo commuovendo. La commozione è un sentimento sublime, che ti colpisce alle spalle, all’improvviso, scavalcando la ragione e dilagando direttamente nell’anima senza preavviso. Ebbene, io mi stavo commuovendo, al cinema, come una quindicenne davanti ad un film d’amore, con l’ingenua partecipazione di uno spettatore senza troppe difese razionali, io stavo entrando in vibrazione e in consonanza con quello che le immagini mi venivano raccontando come se fosse una storia che mi appartenesse e mi toccasse nel profondo. E perché mi stava succedendo questo? Qual era il misterioso percorso attraverso il quale la storia di un principe inglese balbuziente entrava nella mia vita e vi reclamava un tributo emotivo così inaspettato? La risposta sta in una scena del film, e neanche tra le più eclatanti, che però per me ne riassume tutta la forza e il significato profondo: il principe Alberto, ormai divenuto Re Giorgio VI, assiste con tutta la famiglia ad un cinegiornale che mostra Hitler durante uno dei suoi infuocati e deliranti comizi che di lì a poco avrebbero incendiato l’Europa, riducendola ad un cumulo di ceneri. La piccola Elisabetta, allora bambina, chiede al padre: «Papà, ma cosa dice quel signore?» e il re risponde «Non lo so, ma lo dice bene». Ecco, in questo rapido confronto a distanza c’è tutta la potenza della parabola che il film ci propone. È la storia di un uomo timido e problematico, che non vorrebbe dover assumere alcun incarico pubblico, barricato dietro la sua balbuzie che lo rende inadeguato al ruolo che la storia vorrà affidargli, che ingaggia con se stesso una lotta dolorosa per potersi trovare pronto ad assumere la tremenda responsabilità di guidare una nazione in guerra contro il nazismo. Ed è la storia di un popolo che trova identificazione in chi, a costo di grande fatica, riesce ad esprimere valori profondi e condivisi, dandogli peso e sostanza non con la potenza della retorica infuocata né con l’enfasi della follia declamatoria ma con la fatica dell’impegno personale, al servizio di qualcosa di superiore agli interessi del singolo individuo. È la bella parabola di chi sente tutta la fatica e il peso di essere chiamato a fare da riferimento agli altri, pur magari non sentendosene all’altezza, ma assumendosene tutta la responsabilità con l’impegno personale, convinto di dover assolvere il giuramento che il destino gli impone; di chi, posto davanti al dilemma tra “essere e non essere”, sceglie coraggiosamente la via dell’impegno e del sacrificio senza mirare a scopi personali o egoistici. E dietro questa figura, così fragile ma così piena di dignità, si intravede un popolo altrettanto dignitoso ma testardo e fiero, che trova conforto nelle parole piene di verità e di dolorosa partecipazione di colui che a fatica cerca di comunicare ad altri quel coraggio che per primo ha dovuto dare a se stesso. Ecco, io mi sono commosso perché nel profondo dell’animo questo è ciò che io vorrei sentire nei confronti del mio popolo e di chi è oggi chiamato a guidarlo. E un profondo senso di frustrazione mi avvolge.

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