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Il mito di Orfeo – VI

Gennaio 18
14:30 2010

La disfatta e il trionfo del mitico poeta divengono “simboli della perdita e del tentativo di recupero dello spirito del canto da parte dell’uomo in un mondo di alienazione, di violenza e di esistenza spersonalizzata e mitizzata” (Segal). Il legame inscindibile tra parola e musica – scrive Enrico Fubini – trova allora la sua “vita autentica nel canto come fenomeno naturale, come espressione dell’uomo in quanto essere naturale, non ancora alienato e diviso nelle sue facoltà dalla civiltà, dalle regole sociali, dalle necessità e dai bisogni. Recuperare il canto come unione, fusione di parola e musica, significa recuperare l’uomo nella sua integrità, nella sua mitica naturalità, nella sua pienezza espressiva”. L’avventura stessa della poesia moderna e contemporanea “rischia” di coincidere in gran parte con il cammino di Orfeo verso la Notte, alla ricerca di una luce autentica di liberazione, di un’alba impossibile. La crisi della coscienza razionale spinge fin dalla seconda metà del ‘700 ad un’esplorazione sempre più acuta e profonda dei panorami interiori. Rousseau, grande antesignano delle paranoie del nostro secolo, sostituisce al “cogito” di Cartesio un ben più ineffabile esprit de finesse: è la fantasia che si libera dai vincoli del verosimile, del buono, del razionale. Con e dopo di lui comincia “l’epoca della fuga dalla cultura. Poeti e visionari, da Chateaubriand a Lenau, fuggivano dalle città via via sempre più imponenti verso le intatte foreste della Virginia, le incantate savane africane, le montagne asiatiche che sfioravano il cielo, o verso le isole dei mari del Sud dimenticate dal mondo. Essi fuggivano le ripugnanti maschere, le gabbie e gli specchi della civiltà”. I romantici oppongono una rivolta anarchica alla morale del loro tempo. L’esperienza delle sanguinose guerre del XVII secolo aveva prodotto un diffuso timore del caos, della barbarie, delle passioni: si apprezzavano l’ordine, l’intelletto, la pruderie, le buone maniere, la tranquillità. Reprimere i propri sentimenti era considerato segno di buona educazione e di nobili origini. Ma i romantici sono fin troppo sazi di quiete e cercano una vita più intensa e movimentata: ammirano le forti passioni, che forse portano alla rovina ma almeno riempiono l’animo di un’ebbrezza altrimenti non esperibile; preferiscono l’individuo alla società, gli istinti primordiali alle convenzioni civili; disprezzano l’industrialismo e sostituiscono schemi di pensiero estetici a schemi utilitaristici; considerano bello tutto ciò che è inutile, violento, poderoso, titanico, distruttivo, strano, abnorme, misterioso, terrificante; amano l’espressione diretta del sentimento, affatto libera dalle censure dell’intelletto. In arte l’immaginazione estende il suo impero oltre i confini del “normale”. La poesia eredita dalle dottrine di occultisti e “illuminati” come Böhme, Swedenborg e Saint-Martin la certezza di un mondo trascendente, doppio invisibile di quello fisico, sulle tracce del quale orienta le proprie creazioni, trasformandosi in rêverie, contemplazione del mistero, colloquio con la morte, ricerca dell’Assoluto. Questa “realtà seconda” è mescolata al quotidiano, ci avvolge e ci tocca misteriosamente: il “meraviglioso” romantico ha la pretesa di essere autentico al pari del reale. Ogni dettaglio del mondo è una parola della lingua universale, e il mondo stesso è come un Gran Libro ove tout se tient, tutto si corrisponde. Il poeta è chiamato a interpretare questa lingua, a leggere nel libro del mondo, a decifrarne il mistero, a rivelare il lato oscuro delle cose, la realtà essenziale celata dalle apparenze visibili. (continua)

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