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Il vecchio Coronavirus e il nuovo ceppo

Il vecchio Coronavirus e il nuovo ceppo
Marzo 05
21:01 2020

Intanto, è stato ribattezzato. Il nuovo ceppo di Coronavirus ‒ già 2019-nCoV ‒ si  chiama adesso SARS-CoV-2 e giracchia per il globo già dalla fine del 2019.

Caspita, ma allora non si tratta di un alieno kamikaze o di un qualche agente chimico   piovuto da un cielo sempre meno celeste o di un castigo divino, e da escludersi pure l’ipotesi di un attentato alla Sansone, che non si attaglia a mire di comando supremo. Ed ecco lì che si fa un saltino all’indietro e ci si ritrova ai tempi della SARS ‒ Severe Acute Respiratory Syndrome ‒ apparsa nel 2002 in area cinese e viaggiando e mietendo approdata già in fase di regressione in Italia, e risalendo risalendo, passando per la pandemia influenzale Hong Kong del 1968 all’Asiatica del 1957, si arriva alla Spagnola del 1918/’20 che ne ammazzò più della Grande Guerra, tanto per restare alle ‘minacce globali’ dell’ultimo secolo, tralasciando le pandemie minori o superate con i vaccini. E qui si apre un’altra grossa falla, tra favorevoli e contrari o semplicemente ignavi o renitenti all’obbligo della vaccinazione, argomentazione spinosa da trattare in adeguata sede.

Questo per dire che nulla di estraneo o impensabile aggredisce l’uomo a fasi ricorrenti, se non se stesso quando non tiene conto dell’evolversi di ogni cosa esistente, per sua stessa natura e sopravvivenza, e non mette in atto lo stesso imprescindibile principio di ‘mutazione’ che è rinnovamento e reciprocità se applicato nel rispetto dell’equilibrio dinamico per una facilitata convivenza.

E qui si slitta su un terreno infido in cui si sta affondando con tutte le scarpe, per banale stupidità e pigrizia mentale, ma anche per abominevoli quanto sballati  calcoli di comodo, senza  considerare che siamo tutti nella stessa moderna arca e nessuno può salvarsi da solo, mentre ne basterebbero pochi per vanificare lo sforzo di tanti.

Un episodio emblematico che va riflettuto: un panificio in area castellana, una donna  che si mette in coda con il figlio di circa dieci anni, il bambino che si guarda attorno e vede una giovane cliente con i tratti asiatici che sta per essere servita, e lui che scappa verso l’uscita con lo sguardo terrorizzato e una smorfia schifata, e la madre che accorre con l’ amuchina e gli strofina istericamente le mani, poi passa il prodotto sulla maniglia, afferra il rampollo e fugge via, come inseguita dalla peste nera che qualcuno o qualcosa ‒ o l’uno e l’altra ‒ le hanno ficcato in testa e che lei inietta a chi le è affidato, che a sua volta… eccetera eccetera. Ed ecco innescato il contagio, ma quello della paura irrazionale che genera panico, non meno pericoloso del temuto virus che la produce.

La paura è un salvavita se ben gestita ma può esercitare la peggiore ‘influenza’ se esasperata e incontrollata. E si trasmette esattamente come un morbo in libertà.

Si sta attraversando un momento difficile che richiede il massimo dell’attenzione da parte di tutti, il ‘nemico’ è subdolo e potente, ma per contro si può fidare  nell’impegno no stop di antagonisti di valore, schiere di studiosi ricercatori e operatori di cui seguire le direttive costantemente aggiornate in vista di risultati ottimali, sempre che tutti ci si ponga, dall’alto e dal basso, responsabilmente. Senza tuffarsi nei supermercati come cavallette ‒ come accadde anche nell’ ‘86 in seguito al disastro di Cernobyl ‒ e rispettando le elementari norme igieniche con maggiore attenzione e frequenza ma senza farsene un’ossessione. Frequentando i luoghi abituali o prediletti con le dovute precauzioni, e pazienza per gli abbracci mancati per via di quel metro di distanza di sicurezza consigliata, si farà sempre in tempo a recuperare a SARS-CoV-2 sconfitto e allarme rientrato.

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