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La battaglia di Lepanto – 3

La battaglia di Lepanto – 3
Aprile 13
22:00 2011

GaleaLe sei galeazze, guidate dal veneziano Francesco Duodo, vedendo la flotta turca avanzare a semicerchio e temendo l’accerchiamento, aprirono un fuoco violentissimo. Ebbe così inizio un combattimento che, iniziato verso mezzogiorno, proseguì per quasi cinque ore con arrembaggi, esplosioni, scontri con l’archibugio e duelli all’arma bianca: la flotta di don Giovanni d’Austria, riuscirà infine ad avere il sopravvento su quella di Mehmet Alì. Qualche problema si pose al fianco sinistro il cui comandante Barbarigo, ferito da una freccia ad un occhio (morirà dopo due giorni) aveva dovuto cedere il comando a Federico Nani, che rischiò di essere aggirato dalle navi di Muhammad Saulak: il pericolo fu sventato anche grazie all’intervento dei rematori cristiani che, riusciti inaspettatamente a liberarsi dai banchi nelle navi turche, si scagliarono contro i loro carcerieri. Più problematica la vicenda dell’ala destra che doveva proteggere il lato del mare aperto, dove maggiore era il rischio dell’accerchiamento; per evitare questo pericolo il Doria aveva spostato di molto verso destra le proprie galee, aprendo così un varco nel quale abilmente si infilarono le galee di Ulugh Alì: intervenne con tempismo ed abilità la retroguardia del Santa Cruz mettendo in fuga le navi ottomane; in questo frangente trovò il suo momento di gloria anche Miguel Cervantes che, ferito, perderà il braccio sinistro. La flotta turca, o meglio quello che restava della flotta, si ritirò a questo punto verso l’interno del golfo: più di cento tra galee e galeotte erano state affondate e 120 catturate; ottomila i turchi fatti prigionieri e trentamila tra morti e feriti. La flotta cristiana, temendo la tempesta in arrivo, cercò rifugio nel porto di Petala: aveva perduto solo 15 galee e liberato 15.000 cristiani ridotti in schiavitù nelle galee turche; 7.650 i morti – di cui 4.800 veneti – e 7.780 feriti. A causa del maltempo incombente e dell’imminente periodo invernale (le galee non erano fatte per sostenere un mare burrascoso) Giovanni d’Austria, insieme con il Consiglio di guerra, stabilì di non proseguire il cammino verso Istanbul, che avrebbe invece permesso di portare a compimento la vittoria, approfittando anche della momentanea superiorità navale; decise piuttosto di tornare a Messina dove venne diviso il bottino. Contrastanti sono le testimonianze delle ripercussioni a Istanbul, ma senz’altro preveggente fu l’affermazione del gran Visir Mehemet Sokolli: «Lepanto ci ha solamente tagliata la barba; essa crescerà più folta di prima; Venezia con Cipro ha perso un braccio e questo non cresce più». I turchi non avevano subito perdite territoriali, riorganizzarono ben presto la flotta e Cipro rimase nelle loro mani.
Questa grande vittoria navale, seppur non sfruttata dall’Occidente, rappresentò per l’Europa del sud un evento liberatorio: permise la rimozione della paura del turco e sancì la fine del mito della sua invincibilità, mito leggendario che da secoli attanagliava gli animi. Grandiosi furono i festeggiamenti. Ricordiamo quelli disposti per Marcantonio Colonna nel suo feudo di Marino: possiamo ancora trovarne testimonianza nei monumenti della città e nella famosa “Festa del Vino” che si tiene in ottobre con un corteo storico che celebra il ritorno del Colonna, ricorrenza che coincide con la festa della Madonna della Vittoria istituita da Pio V.
Per l’eroico comportamento degli uomini di Perasto in un precedente evento, Venezia aveva affidato a questa cittadina interna alle Bocche di Cattaro il privilegio di custodire il gonfalone veneto e fornire, in tempo di guerra, la guardia a detto vessillo nella galera capitana: a Lepanto su dodici gonfalonieri perastini ne morirono ben otto. Questo stesso gonfalone fu sepolto dai perastini sotto l’altare maggiore della cattedrale il 22 agosto 1797, dopo il Trattato di Campoformio: famoso è il discorso alla cittadinanza del conte Viscovich che culminò con le parole rivolte a Venezia “ti con nu, nu con ti“. L’evento è rappresentato in un celebre quadro di Giuseppe Lallich, pittore dalmata esule.

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