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La colonizzazione continua

La colonizzazione continua
Luglio 25
14:22 2013

'Africa, terra di morti', disegno di Giuseppe Scalarini, 1911Il fenomeno del land grabbing, ormai diffuso a livello planetario, consiste nell’accaparramento di terre per la produzione di derrate alimentari che da un lato genera la speculazione finanziaria da parte di chi può acquistare a prezzi miseri migliaia di ettari di terreno e dall’altro l’impoverimento e lo sfruttamento della popolazione locale disposta a lavorare per pochi centesimi al giorno.

Ad esempio in Etiopia gli investitori, prevalentemente sauditi e indiani ma anche europei, pagano un canone d’affitto che varia dai 100 ai 400 birr, ovvero dai 4 ai 16 euro l’ettaro all’anno mentre il guadagno quotidiano di un lavoratore si aggira intorno ai 9 birr che equivalgono a 60 centesimi di euro. Inoltre spesso questi terreni vengono utilizzati per la produzione di biocarburanti; secondo uno studio dell’Onu su 389 nuove acquisizioni di terra agricola in 80 paesi, il 63% è utilizzato per il biofuel e solo il 37% è destinato alla produzione di cibo. In questo modo le logiche capitalistiche del mercato hanno trasformato anche la terra in un strumento in grado di generare ingiustizie e ineguaglianze. A partire dal 2007 sempre in Etiopia, precisamente ad Addis Abeba, è stato lanciato un piano di affitto delle terre che nel 2011 contava un milione di ettari assegnati e che punta alla distribuzione negli anni a venire di tre milioni di ettari, equivalenti alla superficie del Belgio. Multinazionali, governi e gruppi finanziari comprano o affittano a prezzi ridicoli intere aree grandi come Paesi in Africa (circa l’80% del totale delle terre), America Latina e Asia, ma anche in Romania e Ungheria, una vera e propria pratica coloniale ed imperialista, operata persino da Paesi come la Cina, l’India e l’Arabia Saudita. La Cina ha acquistato 2 milioni di ettari in Zambia, 2 milioni e 800 mila in Congo, 80 mila in Russia, etc; mentre l’India ne ha acquistato 615 mila in Argentina, 370 mila in Etiopia, 290 mila in Malesia, 232 mila in Mdagascar, etc. Anche l’Italia con l’Eni ha comprato nella Repubblica democratica del Congo 180 mila ettari di terreno e in altre aree dell’Africa sub-sahariana ne ha acquistati altri insieme ad imprese private.
Secondo una stima dell’International Land Coalition negli ultimi dieci anni 203 milioni di ettari sono stati acquistati o affittati per il prossimo mezzo secolo mentre l’organizzazione statunitense Oakland Institute insieme ai contadini del Mali hanno denunciato che in poco meno di due anni più di 544 mila ettari di terreno, nei quali lavoravano mezzo milione di agricoltori, sono stati acquisiti da multinazionali.
Le scienze sociali ed economiche intendono i beni comuni come risorse materiali o immateriali condivise che devono essere gestite dalla comunità, infatti i giuristi li considerano come diritti universali al contrario del modello liberista che sostiene che anche le risorse ambientali esauribili debbano essere soggette al regime dei diritti di proprietà. Se i beni comuni non sono opera e prodotto dell’attività umana e risultano indispensabili per la vita, il principio dell’efficienza economica non è solo contestabile ma permette ad imprese che hanno l’unico obiettivo del profitto di compromettere irreversibilmente un bene comune come la terra o un cosiddetto “bene di merito” come l’acqua. La teoria di Garrett Hardin secondo cui per evitare la distruzione dei beni comuni ad opera delle comunità bisogna preferire una gestione statale o privata degli stessi è stata smentita dal premio Nobel 2009 per l’economia Elinor Ostrom che ha dimostrato come una gestione comunitaria sia di gran lunga migliore rispetto a quella statale o privata perché proprio le comunità hanno non solamente un’esperienza diretta nella gestione che avviene con metodi sostenibili basati sulla cooperazione ma soprattutto maggiori interessi nel preservare e migliorare i beni comuni.

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