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La Commedia: tra Guelfi e Ghibellini

La Commedia: tra Guelfi e Ghibellini
Giugno 19
22:00 2011

Il 17 maggio scorso, presso il “Laboratorio di cultura” in Controluce Point il prof. Aldo Onorati ha tenuto una brillante conferenza dal tema “L’astronomia nella Divina Commedia” e come ogni volta mi capiti di assistere ad un’esposizione appassionata del capolavoro dantesco, oltre all’ammirazione per chi con tanta passione si dedica allo studio dell’opera, è riaffiorato in me l’identico quesito: perché la Commedia? Qual è il motivo per il quale un uomo possa prodigare tanta energia in un’opera tanto vasta quanto all’apparire vana? Fu forse il dovere verso la “verità” che spinse l’autore a concentrare il suo ingegno su un impegno tanto gravoso? Dante si avverte poeta e in quanto tale profeta, e certo delle sue convinzioni tenta di metterle in pratica dedicandosi con passione alla vita politica della sua città. Ma quando, vista fallire miseramente la sua “missione”, è costretto ad abbandonare la patria tanto amata e a vagare esule nel buio di una “selva oscura“, decide di “tenere altro viaggio“, un viaggio fantastico da compiersi sulle ali dell’ispirazione poetica, e attraverso il quale raccontare, pregne di tutta la sua delusione e del suo dolore, le sue certezze e le sue speranze. Dante vive a cavallo tra il XII e il XIII secolo, nel momento in cui l’equivoco che ha animato la storia del Medioevo si rivela in tutta la sua drammaticità. L’equivoco, o meglio la menzogna che ha condizionato la storia dell’occidente, è la famosa “donazione di Costantino” che avrebbe attribuito ai pontefici le insegne imperiali e la sovranità sull’Impero Romano d’occidente, concedendo loro di esercitare il potere temporale. Il documento, per i suoi anacronismi e le sue contraddizioni di contenuto e forma, sarà inequivocabilmente smascherato dal Valla nel 1440. Il lavoro dello studioso (de falso credita et ementita Constantini donatione declematio) potrà essere pubblicato solo nel 1517 e in ambiente protestante, mentre la chiesa cattolica si ostinerà a difendere la donazione ancora per secoli. Non è chiaro quando il famoso “falso” venne redatto anche se si ipotizza potrebbe esserlo stato in vista dell’incoronazione di Carlo Magno, avvenuta la notte di Natale dell’800. In effetti, alla deposizione nel 476 d.C. di Romolo Augustolo, ultimo imperatore d’occidente, le insegne imperiali erano state ereditate dall’impero d’oriente, ora Bizantino; quindi il papa non poteva accampare alcun potere temporale e tanto meno alcun diritto ad incoronare imperatori. E a proposito del pensiero di Dante sulla “donazione di Costantino” un’ottima sintesi è rappresentata da questi versi: “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre” (Inf., XIX, 115-117). Alla morte di Carlo Magno, il primo che sotto l’illegittima egida papale sedette su di un trono imperiale nel nome di Roma, l’impero da lui ricostituito verrà smembrato e perderà l’aspirazione all’universalità ridimensionandosi ad Impero Carolingio e quindi a Regno di Francia. Sarà il Re di Germania Ottone di Sassonia, a coronamento di una lunga e fruttuosa attività politico militare condotta nel cuore dell’Europa a partire dal 936, ad essere nuovamente incoronato imperatore in S. Pietro in Roma nel febbraio del 962. I contemporanei la considerarono una restaurazione dell’impero di Carlo Magno, cui Ottone era accomunato dall’ispirazione all’universalismo antico di Roma e dalla missione di protettore della Cristianità e del papato che determineranno però un eccessivo coinvolgimento del sovrano nelle vicende di Roma e d’Italia.
Guelfi e GhibelliniNasce così il Sacro Romano Impero, entità comprendente grosso modo le attuali Germania, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Svizzera, Austria, Nord Italia (escluso il Veneto) e Toscana. L’interessamento per l’Italia degli imperatori tedeschi caratterizzerà tutta la loro vicenda ed i rapporti col papato che vivranno di alterne vicende, fatte di alleanze e di acerrimi scontri, tutte incentrate comunque sulla ricerca della supremazia dell’uno sull’altro e che culmineranno nel concordato di Worms del 1112 che, di fatto, privava l’impero del suo carattere di Sacralità. Nel 1125 muore Enrico V privo di diretti eredi; i principi tedeschi ignorarono la sua designazione di un esponente della casata Sveva degli Hohnstaufen signori del castello di Weiblingen (da cui ghibellini) eleggendo Lotario di Supplimburgo, rappresentante della casa di Baviera del castello di Welf (da cui guelfi). I ghibellini non riconoscendo il potere temporale al pontefice e affermando la supremazia dell’istituzione imperiale, furono osteggiati dal papa che per questo appoggiò i loro rivali guelfi. Nel 1152, con l’elezione di Federico I Hohestaufen (il Barbarossa), la fazione ghibellina prevalse nel territorio dell’impero, e quando questi venne in Italia, nel 1154, per riaffermare la supremazia imperiale messa in discussione dai Comuni sostenuti dal papa, condusse con sé i termini guelfo e ghibellino a designare rispettivamente oppositori e sostenitori. Tra le maggiori città Firenze, Milano e Mantova furono guelfe mentre Forlì, Pisa, Siena e Lucca ghibelline. Le motivazioni della scelta di parte furono le più banali: le città, la cui mira era per tutte l’indipendenza, se sottoposte al giogo papale illudevano liberarsi con l’ausilio dell’imperatore e di contro, se sotto il giogo imperiale, speravano d’affrancarsi ricorrendo al papa, ottenendo però, le une e le altre, il solo rivoltarsi dalla padella nella brace. E ben abbrustolita, come tante altre, rimarrà pure la nostra Tuscolo che sarà letteralmente cancellata per mano del papa e delle famiglie romane sue alleate nel 1191, alla morte del Barbarossa che fin lì l’aveva sostenuta. E così città legittimate da secoli di cittadinanza romana saranno costrette a combattere contro poteri illegittimi in quanto derivati da una donazione mai avvenuta. Le fazioni dei guelfi e dei ghibellini si radicheranno inoltre nell’ambito di una stessa città ad avallare i giochi di potere delle diverse famiglie, che nella contesa per la supremazia ricorrevano all’un potere o all’altro. E su questo s’incentra la Commedia che riferisce dettagliatamente la situazione in particolare di Firenze ma anche del resto della Toscana e non solo. Al tempo della Commedia Firenze è in mano dei guelfi che sono tutt’altro che uniti in quanto la famiglia dei Cerchi, originaria della Val di Sieve, capeggia i selvaggi (i non cittadini, la parte Bianca costituita dalle famiglie mercantili e industriali), mentre la famiglia dei Donati capeggia i cittadini (parte Nera formata dal ceto nobiliare, fatto per lo più di possidenti terrieri). Il 1° Maggio del 1300, durante una festa in piazza Santa Trinità, Cerchi e Donati vengono alle mani e nella rissa resta ferito Ricoverino dei Cerchi; è la scintilla che scatena la lotta tra le due fazioni. Nel giugno del 1301 furono esiliati tutti i principali esponenti dei Neri (Congiura di Santa Trinità, dal nome della chiesa ove si radunavano). Il papa Bonifacio VIII, sino a quel momento imparziale, invitò Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello, re di Francia, col compito apparente di riappacificare le parti, ma col subdolo intento di favorire il ritorno dei Neri in città. E il ritorno dei Neri in Firenze avvenne e con esso la cacciata dei Bianchi (tra cui Dante) che ha inizio nei primi mesi del 1302 e si protrarrà fino ad ottobre. Dante, intimamente scosso dalla vicenda, rivedrà profondamente le sue convinzioni politiche maturando l’idea della necessità dell’imperio come esprime chiaramente già nel libro IV del Convivio; non a caso il Foscolo nei Sepolcri ricorderà Dante come il “Ghibellin fuggiasco”. A questo proposito una mia suggestione riconosce la speranza del poeta nella venuta di un Imperatore che possa diradare la “selva oscura” che attanaglia non solo lui ma l’Italia tutta, nell’episodio che si compie fuori della città Dide nella quale al poeta è impedito di entrare: O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,/ mirate la dottrina che s’asconde/ sotto ‘l velame de li versi strani./ E già venia su per le torbide onde/ un fracasso d’un suon, pien di spavento,/ per cui tremavano ambedue le sponde,/ non altrimenti fatto che d’un vento, impetuoso per li avversi ardori,/ che fier la selva e senza alcun rattento/ li rami schianta, abbatte e porta fuori;/ dinanzi polveroso va superbo,/ e fa fuggir le fiere e li pastori…

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