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La Mongolia e Samuel Beckett

Febbraio 09
10:17 2010

Ideatore originale, scrittore, regista e unico attore di un nuovo interessante spettacolo, Bayasul, in scena al Teatro Abarico di Roma, Vania Castelfranchi lo definisce con voce di commento come l’improvvisazione di un racconto di viaggi per il lavoro dell’attore, come a dire che egli debba pur inventarsi qualcosa per lavorare. Possibilmente con un senso, magari al modo di Samuel Beckett. Il pubblico si sforza di capire un senso che non c’è. L’autore dello spettacolo utilizza il mezzo teatrale per raccontare e condividere, cercando una discreta interazione col pubblico, la sua esperienza di un mese in Mongolia, lo stato dell’Asia che nel IV secolo costituì l’impero più vasto della storia. La chiave beckettiana della rappresentazione offre un interessante supporto nella comparazione tra gli occidentali occidentale e i nomadi mongoli, attraverso letture e commenti di frammenti del testo Giorni felici del drammaturgo irlandese del 1961. Se i primi cercano di dare alla natura una parvenza di regolarità, i secondi accettano di essa l’irregolarità e i limiti dell’uomo nel dominarla; assumono come regola la non regolarità, la non fluidità, il cambiamento energico e improvviso annunciato da un suono unico, molteplice e incommensurabile della natura. Il mantra, un suono espresso in Sanscrito e in grado di liberare la mente dai pensieri, è anche alla base delle religioni mongole, non solo del Buddismo, ma anche della religione Bo, mentre l’Ovo, lo spirito degli antichi a cui i mongoli sono devoti, rappresenta anche dei buoni punti di passaggio nella vita e non l’arrivo. La vita dei nomadi mongoli è paragonabile a un continuo movimento circolare, lo stesso movimento che li porta a girare intorno all’Ovo, che è per noi come girare su noi stessi, visto che null’atro esiste intorno a cui girare; per loro morire vuol dir disperdere il corpo, non conservarlo, poiché questo torna naturalmente a far parte della natura, di per sé irregolare, disordinata, dispersiva. Al continuo movimento fa da contrappunto l’apparente inazione, che è parte della loro filosofia di vita e dell’educazione da loro impartita: il resistere e l’affidarsi non è inazione, ma capacità di farsi portare dalla natura e dunque azione. La religione Bo è fatta appositamente per contrastare la presenza umana come anche l’eccessiva sete di sapere e di conoscere la fine o il fine ultimo delle cose. Uno dei difetti dell’uomo occidentale è quello di affannarsi per cercare la meta del suo percorso dimenticandosi completamente delle sue tappe, in realtà le uniche importanti. Ciò che conta non è cosa si vuole diventare, ma come si vive e le scelte che si fanno ogni giorno per divenire ciò che si vuol divenire. L’Ovo, a detta dello stesso, è l’improvvisazione, non il testo, è il leggio, non la memoria. In una prospettiva rovesciata (e straniante) rispetto al comune modo di pensare la filosofia mongola tende a far coincidere ciò che è oltre lo scibile umano e oltre il sensibile con il nulla, per cui l’uomo non ha bisogno di affannarsi per andare oltre se stesso, né, tantomeno, di fare lunghi passi dimenticando di vivere quelli piccoli. Ciò non vada preso come un invito a non apprendere cose nuove né come presunzione dell’uomo che crede di sapere già tutto. In un’ottica eraclitea, si potrebbe far equivalere l’ammissione del nulla, oltre al concetto del “sapere di non sapere”, in direzione di un’umiltà che diviene sapienza spirituale. Così il personaggio di Castelfranchi cercando di dialogare con il pubblico: “Se cercate troppo non trovate nulla”. Non a caso spesso ci accade di trovare qualcosa quando meno si cerca e si pensa quel qualcosa. Per i mongoli non c’è tutto da perdere, piuttosto non c’è nulla da perdere: per questo amano giocare a perdere. Il drammaturgo irlandese dice che noi siamo il contrario. Lo spettacolo offre una buona sintesi esplicativa del suo teatro e ora si comprende meglio perché i suoi personaggi siano immobili, apparentemente inattivi e senza la capacità di comunicare, come anche i protagonisti di “Aspettando Godot”, Estragone e Vladimiro. Il testo beckettiano è pieno di dimenticanze, di didascalie indicative di gesti e modi. Parole “grammaticali” più che “contenuto”, che indicano una pausa, un lungo o breve silenzio, un gesto. Non c’è storia, solo lunghe pause, magari un suono. La mancanza di un filo logico, l’ascolto raccapricciante del testo e la stessa drammaturgia beckettiana sono il modo in cui Beckett pensa si possa raggiungere un vero Bayasul, ovvero un “giorno felice”. Il suo teatro, afferma Castelfranchi, serve per ricordare che noi siamo proprio come loro, non peggiori di loro. Potrebbe dirsi che ciò che cambia è l’atteggiamento verso il mondo dentro e fuori di noi. Occorre anche ricordarsi dell’Ovo, che indica una strada, non la fine di essa. Esso è anche la scelta momentanea della non presenza: dovremmo imparare anche noi a scomparire per dare a noi stessi l’opportunità di tornare e agli altri quella di mutare, magari per ritrovarci migliori di prima.

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