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La piccola, inquieta Germania di August Sander

Dicembre 01
14:19 2012

Esistono già ponderosi tomi e impegnativi saggi su August Sander, quasi sempre edizioni tedesche o americane, e mille battute o poco più di questo articolo non faranno né caldo né freddo, ma sarà comunque utile tentare di rievocare anche per sommi capi la sua figura. Perché è innegabilmente considerevole e complessa la personalità e la visione di August Sander, maestro riconosciuto della fotografia tedesca dei primi del ‘900, e in modo particolare di quello stile che si è soliti definire ‘ritrattistico’. Perché pone problemi stilistici, di linguaggio, di un modo di vedere autonomo e singolare che raramente si riscontra in altri fotografi.

Si rimane innanzitutto sconcertati davanti alla enorme mole di fotografie e di negativi, più di quarantamila, che ha prodotto nell’arco di un trentennio e francamente smarriti di fronte a quello che egli ha documentato con evidente, ossessiva determinazione. Negli stessi anni in cui Lewis Hine percorreva in lungo e in largo gli Stati Uniti per mostrare il livello di povertà e di sfruttamento dei giovani lavoratori nelle fabbriche o nei campi di cotone, in Germania Sander dava il via ad un suo particolare progetto di catalogazione per ceti della società tedesca. Partendo dal contadino, archetipo dell’umanità in generale, egli ritrae con la stessa intensità e disinvoltura banchieri e pasticcieri, farmacisti e manovali, uscieri e agenti immobiliari, giovani studenti e… giovani nazisti, fino ad arrivare alla categoria degli ‘ultimi’ che comprende gitani, gente del circo, disoccupati e malati. Ci troviamo così di fronte ad un enorme atlante di visi, di posture, e di tutto un modo di abbigliarsi fatto di giacche e cappelli, di scarpe, di bastoni da passeggio, carrozzine, mostrine, alamari, grembiuli e cappottini che con sicurezza scientifica individuano un tempo e un luogo ben definito. O il suo contrario. Perché, a parte la divisa militare o le facce dei contadini, chiunque di noi possiede un baule con immagini simili a quelle di quel periodo. Ma forse allora si spiega il titolo che Sander darà alla sua raccolta, mai portata a termine, e che già nel titolo è di per sé esorbitante: Uomini del XX secolo. Un primo libro con sessanta scatti sarà pubblicato nel 1929 con il titolo Il volto del tempo. Quei volti, quei tipi assurgono a modelli dell’umanità intera. Perché allora dichiararci sgomenti al cospetto di questa immensa opera? Perché più osserviamo queste immagini e non troviamo pace? Forse perché, in prima battuta, queste immagini, algide come pezzi di ghiaccio, ci privano del gusto di giudicarle, di commentarle, e poi perché essendo ogni persona al proprio posto, qualsiasi altra interpretazione sarebbe fuori luogo. Tutti i soggetti, indistintamente, sono ripresi frontalmente o di tre quarti, spesso a figura intera e, come per un oscuro sortilegio, cristallizzati in pose che a prima vista paiono assolutamente consuete o ne danno l’impressione. Sembra di essere piombati in una tetra favola dei fratelli Grimm, o a Pompei dopo l’eruzione. E più scaviamo col nostro sguardo i loro visi, più penetriamo in un vertiginoso maelstrom, in un abisso di ricordi, di similitudini che in qualche caso riportano alla nostra infanzia e all’infanzia del mondo. È come se quelle persone le avessimo già incontrate o intraviste ma, come le galassie nell’ Universo, esse si distaccano da noi inesorabilmente, ci ricordano che anche loro hanno vissuto su questa terra, ma in un tempo distante, troppo distante. Ed è soprattutto la persistente fissità di quegli occhi che produce un effetto straniante e che non aiuta ad avvicinarci a cuor leggero a queste immagini. Nel suo acidulo ma stimolante saggio ‘Sulla fotografia’, Susan Sontag scrive: «Nonostante il suo realismo classista, è uno dei corpus più veramente astratti dell’intera storia della fotografia.» Si può sottoscrivere. Sander infatti fotografando tutte le classi sociali con magnanima equità sembra non schierarsi mai, sospende il suo giudizio, non prende posizione per nessuno degli attori in campo. Si potrebbe dire che non provi neanche simpatia o tenerezza per quelle sue immobili figurine. La sua è una estenuante compilazione tesa a raggiungere una sua verità. La verità dei visi come espressione delle classi e quindi della società, non solo quella tedesca. Il volto concreto delle persone e quello dello Stato che si va costruendo sotto l’incalzare del tempo e della Storia. Ma, come osserva ancora la Sontag: «I professionisti e i ricchi sono generalmente ritratti in casa, senza scenografia. Sono eloquenti in sé. Manovali e derelitti vengono fotografati in un ambiente (all’aperto) che li definisce, che parla per loro, come se non fosse possibile riconoscergli quel tipo di identità personale che è invece normale tra i membri della classe media o superiore.» E allora? Sembrerebbe che ci troviamo alla presenza di un invasato epigono di Lombroso e delle sue teorie sulla fisiognomica applicate alle classi meno abbienti. Oppure, verosimilmente, siamo di fronte al custode di un piccolo mondo antico da preservare, da tramandare ai posteri, una sorta di Arcadia preindustriale che quella stessa Storia si incaricherà di spazzare via. Questo atteggiamento, se così fosse, fa venire in mente il Viaggiatore sopra il mare di nebbia, il dipinto di Caspar Friedrich: dall’alto di una montagna un viaggiatore contempla la vastità del paesaggio. E questo fa il fotografo: è semplicemente uno spettatore. Invocando una presunta ‘oggettività’ e ponendosi di fatto al di sopra delle parti, registrando meccanicamente, egli sembra aspirare a un mondo senza conflitti, senza lacerazioni, dove le persone, i lavoratori e i disadattati in primis non diano fastidio più del necessario. È in fin dei conti una aspettativa della borghesia di ogni tempo e di ogni nazione il voler restare in pace, arrivare gradino dopo gradino, per tutto il corso della vita, ad una placida serenità. Raggiungere e mantenere ad ogni costo un decoroso status sociale. E perderlo improvvisamente, significherebbe approdare alla nevrosi, alla follia. E Sander è essenzialmente un borghese ossessionato, si evince dalla biografia, a difendere la sua posizione sociale. Ma quell’attitudine, quel privilegio di poter guardare al mondo con così tanta naturalezza e neutralità, senza troppi patemi d’animo, costerà caro non solo a lui, ma, nel volgere di pochi anni, a tutta la Germania e al mondo intero. Lui, sostenitore del Partito Socialdemocratico e della Repubblica nata a Weimar nel ’18, sembra non intuire, da spettatore, che i nuvoloni che si addensano a fondovalle giungeranno ben presto a travolgere anche la montagna. La tragedia della Prima Guerra Mondiale e la scelta suicida dei socialdemocratici tedeschi di eliminare fisicamente l’ala sinistra del Partito, minando così le fondamenta della Repubblica, non scalfisce il suo modo di vedere e di fotografare. Saranno i nazionalsocialisti, loro sì, che fiutando l’insita pericolosità di quelle immagini, definite ‘antisociali’ e in contrasto con i loro ideali di razza e di ordine, distruggeranno con il fuoco un numero imprecisato di negativi, stroncando definitivamente quell’utopico, originale progetto. Quei volti, quell’umanità, secondo loro, aveva fatto il proprio tempo.

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