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Le “Parole della politica” – 3/8

Febbraio 13
23:00 2011

Il professor Canfora, docente di Filologia classica, ha affrontato il binomio “Leader e popolo” spiegando innanzitutto il motivo dell’accostamento con il precedente binomio “politica e antipolitica”: se la politica è “arte della pòlis” (città) o più in generale “teoria dello Stato, delle sue forme e strutture”, lo stato si configura come un’entità articolata nelle due polarità di governanti, (dunque la sovranità, che implica il potere o supremazia all’interno) e governati (il popolo quale insieme di individui che mirano a perseguire fini comuni). La sovranità è esercitata attraverso il potere legislativo ovvero quello di fare le leggi, che è esercitato dal Parlamento, organo che dovrebbe essere direttamente rappresentativo del popolo, titolare del potere di “eleggere i propri rappresentanti”; mentre il potere esecutivo, quello di far eseguire ciò che le leggi prescrivono, è esercitato dal Governo a sua volta eletto in Parlamento. In ciò si distingue da un ordinamento di tipo presidenziale, che presenta invece due centri di potere indipendenti, il Parlamento e il Presidente, direttamente eletti dal popolo. In riferimento ai rapporti delle istituzioni col cittadino, Canfora menziona il ruolo della Pubblica Amministrazione ovvero l’insieme di uffici e funzionari alle dipendenze dei vari Ministeri, organizzata secondo il principio del decentramento. Ricorda, infine, il potere giudiziario, quello di far rispettare le leggi e punire i trasgressori, esercitato dalla Magistratura quale «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» che amministra la giustizia in nome del popolo. Canfora non poteva, tuttavia, esimersi dall’osservare come, nel delicato rapporto tra leader e popolo, il primo abbia nel tempo abusato dei propri poteri, svuotando di ogni significato l’originaria sostanza di «designato dal parlamento espresso dalla nazione». Ha rievocato quindi una serie di immagini della figura del leader come delineate da grandi pensatori. Tra i primi la figura del demagogo tiranno secondo Platone (428-360 a.C.): «Il demagogo è colui che tenta di accaparrarsi il favore del popolo attraverso la retorica e le false promesse». Platone – come poi Aristotele (384-322 a.C) – vedeva nella demagogia la naturale e inevitabile degenerazione della democrazia, che a suo avviso non è la migliore forma di governo, dal momento che pone il potere decisionale per lo più nelle mani di poveri che non hanno possibilità di coltivare l’intelletto. Canfora ha poi ricordato Max Weber (1864-1920), il pensatore tedesco, filosofo, sociologo ed economista che teorizzò una forma di governo che identificava nel carisma un elemento imprescindibile del potere, quale capacità del leader di entrare in comunicazione diretta con il popolo. Weber partecipò alla redazione della Costituzione della Repubblica di Weimar, che nell’articolo 48 delineava un regime semi-presidenziale attribuendo pieni poteri al Presidente della Repubblica in caso di grave minaccia per lo Stato. La Germania è stata tra i paesi rappresentativi di una particolare forma di leadership, in riferimento agli enormi poteri del presidente e al conseguente svilimento del parlamento. Antonio Gramsci (1891-1937), uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia (PCI), nei Quaderni del Carcere chiarisce la sua visione del leader carismatico, dotato di una grande capacità di comunicare con la massa, la quale ha bisogno di essere rassicurata: la sua messa in scena è «finalizzata a trasformare le masse umane degli spettatori in un semplice strumento al servizio del proprio progetto politico». Durante il suo soggiorno a Mosca, dove si reca come delegato del PCI nell’esecutivo dell’Internazionale Comunista (1919-1943) e prima ancora di essere incarcerato dal Fascismo, Gramsci studia da vicino la politica di Lenin e gli effetti della dittatura del proletariato. La Repubblica Russa, dal 17 marzo 1917 alla rivoluzione d’ottobre, ha visto emergere, dopo l’abdicazione dello zar Nicola II, il doppio potere del soviet di Pietrogrado, formato da menscevichi, bolscevichi e socialisti indipendenti, e del Governo Provvisorio, di cui era primo ministro Alexander Kerensky. Tuttavia, di fronte alla continua crisi del secondo, i bolscevichi acquistano maggiore libertà d’azione e conquistano la maggioranza all’interno dei soviet, fino a quando, il 25 ottobre occupano il palazzo d’Inverno, sede della Duma, e abbattono il Governo segnando la fine della Repubblica Russa: l’Assemblea Costituente, espressione di una “repubblica borghese”, viene sciolta in nome di una “repubblica di soviet”, che Lenin ritiene essere l’unica istituzione capace di assicurare la transizione al socialismo. Se nella prima rivoluzione del 1905 i soviet avevano preso il posto delle organizzazioni operaie, troppo deboli per abbattere da sole lo stato zarista, ora l’iniziativa che portò al nuovo soviet veniva dai dirigenti politici, che si dividevano sempre più tra le diverse correnti politiche: la rivoluzione divenne così guerra civile. (Continua)

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