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“Lex, dura lex sed lex”

Marzo 05
13:18 2011

Nello spazio di tre giorni, dal 14 al 16 febbraio, ci sono stati tre provvedimenti giudiziari, in sede penale, che hanno interessato l’attenzione generale e creato molte polemiche, manifestazioni e dichiarazioni sconcertanti: l’assoluzione, per insufficienza di prove, di Luca Delfino, il cosiddetto “killer delle ex”, il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi, e infine il  proscioglimento (ex art.649 c.p.p.) di Salvatore Cuffaro. Forse è opportuno discernere fatti, ragioni e criteri. È ovvio che nel leggere i commenti si debba tener conto del dolore dei parenti delle vittime, delle rimostranze dell’imputato, e perfino delle convinzioni politiche o di altri interessi. Però resta forte la sensazione che in Italia, attualmente, non vi sia una diffusa cultura giuridica di base, a dispetto della sua indiscussa fama di culla del diritto. L’attività giudiziaria, cioè l’applicazione ai casi concreti delle norme astratte e generiche previste nei codici, è un lavoro complesso e di responsabilità. Questo accade perché le norme di cui tenere conto sono tante. L’impianto del nostro diritto penale discende direttamente dal diritto romano che ha praticamente rivoluzionato ogni precedente sistema, compreso quello apparentemente democratico e garantista della polis greca. La differenza è enorme: nel periodo d’oro dell’Atene del V-IV sec. a. C., nonostante una massiccia partecipazione dei cittadini come giudici popolari, i tribunali emettevano spesso sentenze ingiuste perché frutto dell’onda emotiva o guidate dalle convenienze momentanee di ogni genere. Dal diritto romano in poi queste storture deleterie e contraddittorie sono state limitate al massimo perché in realtà quasi mai la vox populi è vox dei e, soprattutto, la giustizia popolare, intesa come partecipazione di massa, mai è veramente giusta. Lo spartiacque è elementare: da una parte una serie di norme di carattere sostanziale che sanciscono come reati i comportamenti che sono dannosi per la società, e per i quali soltanto si può essere processati e puniti (codice penale); dall’altra le norme che regolano il procedimento per accertare il reato e applicare la sanzione – pena con modalità e percorsi formali rigidamente prefissati anch’essi (codice di procedura). Ecco che la civiltà del diritto si realizza attraverso un’operazione molto semplice, il rispetto delle regole: quelle sostanziali da parte del cittadino, quelle procedurali da parte dei giudici, sempre nell’interesse dei cittadini. I giudici debbono seguire strettamente le regole e non possono abbandonarsi a convinzioni personali o a voci di corridoio e sussurri popolari. Può accadere che il giudice, pur convinto intimamente della colpevolezza dell’imputato per valutazioni o sensazioni personali, debba scrupolosamente assolverlo in assenza di prove certe di colpevolezza. Lo farà con sofferenza, ma con la sua azione coraggiosa affermerà la preminenza del diritto, bene supremo. Forse Luca Delfino (accusato di aver barbaramente ucciso la fidanzata e condannato in precedenza per un fatto del tutto simile) dal rispetto delle regole ci ha guadagnato “ingiustamente” e i familiari della vittima comprensibilmente, ma non legittimamente, protestano e biasimano il giudice. È comunque un prezzo accettabile per la certezza del diritto che si traduce, per altri versi, in assenza di condanne ingiuste ed elimina un rischio grandissimo al quale potremmo essere tutti esposti: quello di essere vittime (per ragioni politiche, etniche, di interesse…) di una giustizia popolare. I fatti della vicenda Berlusconi sono fin troppo noti. Anche qui occorre considerare che generalizzazioni e precedenti non debbono essere usati per una giustizia sommaria. Quando il Presidente della Repubblica ricorda che in Italia ci sono tutti i mezzi (i tre gradi di giudizio e perfino altri rimedi straordinari) per un processo giusto, si presta forse poca attenzione alla grandezza di questa affermazione. Noi dobbiamo essere orgogliosi del nostro sistema giudiziario che, pur con le fisiologiche deficienze, è senz’altro uno dei più raffinati e giusti nel mondo. C’è infine da soffermarsi sulla vicenda di Salvatore Cuffaro, già condannato definitivamente e ristretto per favoreggiamento aggravato della mafia. Il 16 febbraio un Tribunale lo ha prosciolto perché l’art. 649 del Codice di Procedura Penale prevede che «L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, anche se questo viene diversamente considerato per…». Dunque una normalissima applicazione di una norma che conferma, se ce ne fosse bisogno, la civiltà giuridica del nostro Paese. Il disdicevole è commentare questo semplice fatto con quella che può sembrare malafede o con l’intento di giovarsene per aumentare i polveroni che non mancano mai, dati i venti e la qualità di una certa politica. Un deputato, capogruppo della maggioranza e assiduo portavoce e chiosatore, se sono vere le parole riportate sulla stampa nazionale, ha dichiarato: «Prendiamo purtroppo atto del fatto che in Italia sia possibile che due procure diverse processano la stessa persona per lo stesso reato, arrivando a sentenze opposte. Anche questo rientra in una anomalia che riguarda la giustizia e talvolta l’accanimento giudiziario e che testimonia come il sistema vada riformato». Queste dichiarazioni recano un cattivo servizio alla giustizia. L’applicazione di una importante norma di salvaguardia (tutti possono essere perseguiti da più procure e la sentenza non è ‘opposta’, ma semplicemente ‘dichiarativa’) è stata sfruttata in maniera indegna.

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