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La fissione nucleare compie 70 anni – 18

La fissione nucleare compie 70 anni – 18
Luglio 31
23:00 2009

oppenheimer-18L’uomo dal cappello di feltro

 

Con la tesa incurvata verso l’alto. Nell’ingresso dell’ufficio del Direttore dell’Istituto di Studi Superiori, a Princeton, lontano dal centro abitato e dall’università, in un semplice edificio di mattoni, tra i campi, per molti anni rimase appeso un cappello. Rotondo, marrone, con la tesa incurvata verso l’alto, era un cappello da uomo di Harvard, ma con la polvere dell’Ovest, un cappello portato su strade di montagna, mordicchiato da cani festosi, adoperato dai bambini come cuscino sulle station-wagon. Non era precisamente il cappello di un uomo orgoglioso: avrebbe potuto portarlo un frate questuante nel Medioevo, e tuttavia il suo proprietario doveva essere piuttosto noncurante dell’opinione pubblica. Era un cappello che aveva una storia: ai tempi in cui esisteva un segreto atomico, quel logoro cappello di feltro aveva riparato per qualche tempo le formule magiche che fecero saltare in aria Hiroshima. Il visitatore esperto che di lì dava un occhiata all’attaccapanni. Se il cappello c’era, sapeva che il professor Oppenheimer si trovava nel suo ufficio.

 

Un viso smunto in un silenzio monastico. L’uomo che appariva sulla soglia della porta socchiusa era alto di statura, con grandi occhi grigi in una testa stretta dai capelli tagliati a spazzola e con un viso smunto dal lungo naso inquisitore e dalle fattezze irrequiete, più simile alle facce che gli scultori italiano del Rinascimento amavano scolpire sui loro medaglioni, che alle floride facce dei suoi contemporanei americani. Regnava un silenzio monastico nell’ufficio in cui, camminando a passi irregolari, con una certa cortesia nei gesti, egli soleva introdurre i suoi visitatori. Le posizioni delle sedie color zucchero bruciato situate intorno al tavolo delle conferenze sembravano portare ancora l’impronta delle decisioni di coloro che le avevano di recente occupate. Dietro l’ampia scrivania del Direttore, una fila di finestre si apriva su un prato verde ombreggiato da salici. La parete opposta era occupata da lavagne sulle quali stavano scritte con il gesso intere righe di simboli. Su cartellini stampati appesi a ganci stava scritto da un lato cancellare e dall’altro non cancellare. Le frasi del professor Oppenheimer erano piuttosto lunghe. I suo tono di voce aveva un che di malinconico. Il suo inglese era chiaro e meticoloso, con una traccia lievissima di Harvard, o di Cambridge, o di New York, dove egli era cresciuto. Il ritegno iniziale si tramutava in una viva gentilezza se quanto il visitatore aveva da dire destava il suo interesse o la sua curiosità. Gli occhi divenivano straordinariamente luminosi. Per gli studenti, egli costituiva uno stimolo irresistibile. Tanto gli uomini quanto le donne lo ritenevano bello.

 

Famiglia e infanzia: studente bravissimo in tutte le materie. Julius Robert Oppenheimer nacque a New York; apparteneva a una antica famiglia ebrea della Renania. Sua madre, di Baltimora, prima del matrimonio, era stata insegnante di disegno. Suo padre era emigrato a 17 anni dalla Germania e aveva fatto i soldi con il commercio. Appassionato di musica, sensibile al proprio dovere nei confronti dei suoi simili, aveva allevato i suoi figli nel disinvolto umanitarismo del prospero mondo al tramonto del XIX secolo, un mondo di transatlantici e di località termali europee e di musica da camera e di simpatie civilizzate in cui la cultura etica eliminava le superstizioni del passato ebraico o teutonico. Robert Oppenheimer fu uno dei migliori studenti alla Scuola di Cultura Etica, che era piena di studenti bravissimi. Il west side di New York, nel quale egli crebbe, era una testa di ponte della cultura europea nell’ignorante continente di quella America dalla voce rauca, che giocava a baseball, organizzava fiaccolate, citava la Bibbia, andava pazza per il denaro. Robert aveva 10 anni, quando le tradizioni della sua civiltà europea ricevettero il primo micidiale colpo dallo scoppio del conflitto mondiale nel 1914. A 18 anni si iscrisse a Harvard, dove in tre anni divenne Bachelor of Arts. Poi si recò all’estero, a Cambridge e a Gottingen, per laurearsi in lettere e filosofia.

 

Una nuova generazione di fisici. La grande predizione di Einstein e = mc2 aveva ampliato le possibilità già straordinarie dello studio del microcosmo atomico in cento direzioni diverse. Il principio di indeterminazione, il gioco a rimpiattino con gli elettroni, la inafferrabilità delle lunghezze d’onda e delle particelle divennero il cortile di ricreazione dell’intelligenza sottile ed energica di Oppenheimer. Egli apparteneva a una generazione della quale un fisico poté dire senza scivolare troppo nell’iperbole: Il 90% di tutti gli scienziati, che siano mai vissuti, vive oggi.
Era difficile che i giovani fisici della nuova generazione non ricevessero gli onori del mondo. Oppenheimer, quando tornò negli USA all’età di 25 anni, si era già fatto una reputazione tale che poté scegliere, per insegnare, tra dieci università diverse, senza tenere conto di un paio di offerte che non aveva accettato in Europa. Si recò all’ovest e accettò la nomina ad assistente alla Università di California. Disse in seguito di aver provato la nostalgia degli USA durante tutti quegli anni trascorsi oltre oceano. Come molti giovani americani di educazione europea, non è affatto escluso che, soltanto all’estero, egli avesse intuito l’esistenza di qualcosa di speciale nell’entroterra a ovest dello Hudson. Gli europei sofisticati degli anni 1920 erano colmi di ingenuo entusiasmo per il jazz americano e i grattacieli e la letteratura transatlantica.

 

Tra Berkeley e Pasadena. In California, fece la spola tra Berkeley e il California Institute of Technology, a Pasadena. I suoi studenti lo seguivano da una facoltà all’altra. Sempre nuove penetrazioni nella natura della materia o nella natura dell’energia (i due concetti stavano diventando intercambiabili) dischiusero prospettive da dare il capogiro. Lo entusiasmava l’idea che la nuova fisica fosse americana. Quando ci conoscemmo nel 1929, la fisica americana non era in realtà molto progredita, senza dubbio non era adeguata alle vaste dimensioni e alle ricchezze del paese, disse nel 1954 Isidore Rabi. Ci preoccupavamo molto di elevare il livello della fisica americana. Ne avevamo fin sopra i capelli di andare a imparare in Europa. Volevamo essere indipendenti. Debbo dire che, secondo me, la nostra generazione, quella del professor Oppenheimer e di altri miei amici che potrei nominare, riuscì nell’intento, e dieci anni più tardi avevamo conquistato la supremazia. Un grande maestro, un capo nato di giovani intelligenze indagatrici. C’era ancora qualcosa del giovane danese malinconico in Oppenheimer. Quanto più egli si addentrava nel mondo segreto della interazione delle energie, tanto più rimaneva colpito dalle limitazioni della propria intelligenza. Ogni forma di conoscenza preclude in realtà altre forme, disse durante una conferenza a Caltech, nel tono afflitto e meditativo nel quale soleva scivolare. Ogni studio approfondito di un argomento recide un’altra parte della nostra vita.

 

La missione di fisico e il mondo dell’azione. Malgrado fosse un dotto professore, Oppie era ancora giovane. L’essere separato dai giovani e dalle ragazze che si divertivano con esuberanza nei cortili e nei giardini dell’università lo faceva soffrire. Aveva una indole gregaria. C’era un che di sacerdotale nella sua missione di fisico, che lo escludeva dal mondo dell’azione. Così Oppie descriveva il proprio stato d’animo di quei tempi: I miei amici, sia a Pasadena, sia a Berkeley, erano per la massima parte persone facoltose, scienziati, studiosi dei classici, artisti. Io studiavo e leggevo il sanscrito. Leggevo moltissimo, ma soprattutto classici, romanzi, commedie e poesia. E leggevo a volte volumi concernenti altri settori della scienza. Non mi interessavo alla economia e alla politica e non leggevo nulla al riguardo. Ero quasi completamente avulso dalla scena contemporanea in questo paese. Non leggevo mai un giornale, né una rivista di attualità come Time o Harper’s. Non avevo né la radio né il telefono; seppi del tracollo in borsa dell’autunno del 1929 soltanto molto tempo dopo l’evento. La prima volta in cui votai fu nelle elezioni presidenziali del 1936. Mi interessava all’uomo e alla sua esperienza; mi interessavo profondamente alla mia scienza, ma non sapevo nulla dei rapporti dell’uomo con la società.
Venne introdotto nel Partito in seguito a una avventura sentimentale – forse maturò tardi anche in questa direzione.

 

Professore ammirato e ricco di fascino. La donna era figlia di un professore universitario, colma, a quanto pare, di passioni insoddisfatte, che la indussero a spezzare il cerchio degli ambienti accademici e a uscire nel mondo reale. Portò il suo bel fisico a riunioni in cui i giovani traboccavano di entusiasmo per i poveri proletari. Come la relatività di Einstein aveva scardinato la fisica newtoniana, le certezze di Marx fornivano la formula che avrebbe posto rimedio a tutti i mali capovolgendo l’ordinamento sociale. La dinamica degli oppressi faceva parte del retaggio della democrazia americana. Il professor Oppenheimer non era per nulla un oppresso. Era un professore ammirato e ricco di fascino, Tuttavia, la fisica non bastava. Aveva bisogno di un credo. Voleva aver parte nel dramma della storia. Avrebbe trovato la sua trasformazione mistica in un proletariato trionfante. Mi piaceva quel nuovo senso di comunità e al contempo sentivo che sarei entrato a far parte della vita del mio tempo e del mio paese, diceva il professor Oppenheimer ai suoi amici più intimi. Appartenni probabilmente ad ogni organizzazione del fronte comunista sulla costa ovest, ebbe a dire in un momento di scherzose rievocazioni. Le riunioni costituivano una rivelazione per un giovane che aveva condotta esistenza appartata. C’era una atmosfera di mondanità e di giusto modo di pensare nei ricevimenti che si svolgevano nei salotti dei benestanti. Le cause attraggono le giovani donne senza un compagno. Le collette di denaro per i profughi spagnoli, o per la mano d’opera emigrata dal Messico, o per gli scaricatori portuali, davano una aria di estrema virtuosità al turbine sociale.
(John Dos Passos, A metà secolo. Il principio di incertezza, Feltrinelli, 1961)

 

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