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Gennaio 12
23:00 2008

Nessuno mi ha detto niente, ma il cartello incerottato ai piedi del letto ordina il digiuno per stamattina e stamattina è giornata di test da sforzo.
Nel corridoio vanno su e giù rasentando i muri in cerca di appoggio i miei compagni di disavventura, facce segnate e occhi spauriti. Abbiamo trascorso insieme una spiacevole settimana in Terapia Intensiva, attaccati a un monitor e ad un filo di vita. Ci troviamo all’ospedale san Giuseppe di Albano, reparto cardiologia. Siamo quasi tutti infartuati, sopravvissuti per un soffio all’offesa necrotica. Non è stato ancora fatto l’inventario dei danni, ma da come ci presentiamo – ognuno è lo specchio dell’altro – dovrebbero essere piuttosto ingenti. Prendo anch’io a scivolare nei due sensi di marcia lungo il corridoio, tipo ergastolano nervoso. Copro una mattonella con un passo, poi due e mi piacerebbe arrivare a coprirne tre, sempre con un solo passo, ma sento già l’affanno di uno slancio soltanto vagheggiato. Sento le gambe rigide come pezzi di legno senza snodi. Peggio di Pinocchio, che gli snodi li aveva e ben lubrificati.
Mi chiamano, tocca a me. Un giovane infermiere mi fa segno di seguirlo. Strada facendo mi dice che lui è di Nemi, avrà letto sulla mia cartella clinica che io abito a Genzano, e cioè a due passi da lui. Tracagnotto, riccio, scuro, con la fronte bassa e il naso schiacciato, richiama alla mente gli ominidi descritti da Aldo Onorati ne La saga del mondo perduto.
“Venga”, mi dice e io lo seguo nella stanza luminosa tappezzata di poster. Eduardo, il grande, il cattivo Eduardo, si porta alle labbra la tazzulella e café, Charlot e il suo Monello mi fissano con quella faccia un po’ così, attrici famose e appetibili stanno in bella posa, paesaggi alpini lacustri e fluviali slargano le pareti che sono di un bianco accecante.
Il bruciore di stomaco si è fatto nausea; la paura mi striscia dentro, sbavando.
Ho visto alcuni di quelli che mi hanno preceduta nella prova uscire da questa stanza a testa bassa. Prova non superata o addirittura annullata, hanno detto con un filino di voce diretti alla loro brandina. Chiedo all’infermiere castellano quante probabilità ho, secondo lui, che mi vada bene – così ho sentito che si dice: mi è andata bene, mi è andata male – e lui mi risponde che ho il cinquanta… il sessanta percento di buone probabilità. Lo ringrazio mentalmente per quel dieci percento aggiunto, che non spacca in due la media come un’accetta.
“Ottima percentuale”, dico. “Vogliamo scommettere che…”
“Okay, scommettiamo”, mi risponde lui.
A petto nudo, la macchinetta legata alla vita, l’intreccio di fili di tutti i colori che fa capo alle ventose attaccate al torace. Cardiologo e tecnico in postazione, siamo pronti? Pronti.
Sul vellutino sintetico di un verde acido, in pedalini grigi, le mani abbrancate alla transenna di legno che mi si pone davanti come fosse l’ultimo baluardo prima del precipizio. Panico in agguato, mi devo controllare.
“Pressione.”
Il mio infermiere esegue, guardandomi di sfuggita con gli occhi intelligenti e buoni, e riferisce; poi prende a sfogliare distrattamente una rivista. Che si trovava lì, quando siamo entrati, sulla sedia. Forse fa parte dell’apparato, penso; tattica di tranquillizzazione, carini.
Melanzane alla burina, una ricetta facile facile, dice il nemense e annuncia che stasera se le farà per cena. Perché la cena non te la prepara tua moglie, gli vorrei chiedere, ma è meglio che risparmio il fiato. Può essere pure che la moglie non ce l’ha. E sinceramente non me ne può importare di meno.
“Non guardare in terra”, mi dice. “Guarda avanti e in alto.”
“Da”, gli rispondo duro. Che c’entra adesso la santa Russia?
Davanti ho il muro e sul muro è attaccato un poster insipido e banale, laghetto cilestrino e cielo pallido. Pare fatto apposta per tirarti giù. Ci sarebbe bisogno di qualcosa di meglio, penso, qualcosa di stimolante. Che so, un vulcano in piena eruttazione, una cascata vertiginosa tipo Niagara, un maremoto al culmine con le onde anomale alte fino al cielo, un terremoto del decimo grado della Scala Mercalli…
“Siamo pronti?” Pronti.
“Pressione.” Vai.
Il rullo comincia a scorrere. Muovo i primi passi con l’andatura che mi era abituale e mi accorgo di non sostenerla più. Rallento. Tiro il fiato e mi applico di nuovo all’impresa, ora più quieto, metodico. La paura mi precede e mi accompagna. Temo di stramazzare sul pratino finto e di restarci secco, in questa passeggiata di prova.
“Guarda in alto, più in alto.”
E’ la voce amica del ricciuto infermiere a guidarmi; miro obbediente il laghetto, troppo cheto per i miei gusti. Le cime dei pini sembrano soldatini di piombo ossidato, la roccia è brulla, desolata e tetra, la neve è ghiaccio indurito senza candore.
Il rullo accelera e anche il mio passo.
“Tutto bene?”
” Tutto bene.”
“Pressione?”
“Quasi invariata.”
Mah!
Mi viene da battere la testa al muro. Ho tante cose da fare e la pompa scassata. Cuore traditore. Il rullo va in leggera salita e io salgo con esso, le mani artigliate alla transenna che mi separa dall’abisso.
Il laghetto montano è di una noia mortale.
Quello specchio immoto che non riflette il cielo mi afferra e mi porta giù, nel fondo melmoso aggrovigliato di alghe. Qui giacerò in eterno riposo.
“Tutto bene?”
Tutto bene. La salita si fa ripida, il moto accelera. Fisso lo sguardo all’estremità superiore del poster e cancello tutto il resto. Restano i picchi protesi a succhiarsi le nuvole e con un tramonto che è dentro di me insanguino tutto.
“Stop. Ottantotto percento… novanta.”
Che significa?
“Venga”, e l’angelo custode di Nemi mi scorta fin sulla porta della mia stanza. “Abbiamo vinto la scommessa”, mi dice con un sorriso.
“Grazie”. Non so dirgli altro.
Dieci giorni fa camminavo per le strade di Roma. Era una bella giornata di giugno e io avevo una faccenda da sbrigare che mi stava molto a cuore. Cuore. Improvviso il dolore mi aveva stretto al torace, come un grosso boccone andato di traverso. Mi facevo largo tra la folla fra ondate di nausea e perdita di sensi in attimi bui, appoggiandomi dove capitava, anche sulle spalle di perfetti estranei. Un viaggio di ritorno lungo quanto una quaresima e tristo come un calvario, con una spada rovente infissa nello sterno.
Solo dieci giorni fa. Mi accosto alla finestra socchiusa, le ambulanze vanno e vengono ululando. D’un tratto mi arriva il sapore, il profumo, il tepore dell’aria e mi accorgo di respirare. Prima non ci avevo fatto mai caso.
Da una disgrazia nasce la mia fortuna. M’innamoro della vita in questo momento. Desidero viverla tutta, fino in fondo. Finora la vita l’ho sopportata a stento.
Assisto alla mia nascita, commosso fino alle lacrime.

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