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Vita da pendolari

Agosto 05
23:00 2007

…Anas, Aiscat e società autostrade… Click. Dura pochi secondi l’impegno mattutino della radiosveglia. Sono le sei. Dalla finestra si percepisce un buio denso, appena ingentilito da qualche lampione. In piedi. Subito in cucina a preparare il caffè. Poi in bagno. Barba. Di nuovo in cucina. Caffè. Ancora in bagno. Denti. Sei e mezza. In camera, vestirsi, in fretta.
Sei e trentacinque. Borsa, chiavi, cellulare. Fuori. Sempre buio. Freddo. In macchina. Accensione. Frizione. Prima. Acceleratore. Stazione. Parcheggio.
Sei e quarantacinque. Ancora buio. Freddo cane. Edicola. Messaggero e Corriere dello Sport. Il treno delle sei e cinquantacinque viaggia con circa dieci minuti ritardo. Che palle. Bar. Un caffè macchiato, grazie. Fa freddo oggi, vero? Che dicono le previsioni? Certo quel rigore. Si, ma Totti ha sbagliato doveva tirare prima. Buongiorno, ecco il resto.
Binario. Ciao. Ciao. Buongiorno. Stesse facce, stesse espressioni assonnate. Quanti anni sono che ci si incontra su questo binario? Venti, trenta, qualcuno anche di più. Si comincia da studenti, con i libri sottobraccio, cercando di individuare quella biondina che il giorno prima ti aveva sorriso. Di dove sarà? Zagarolo, Palestrina, Cave. Chissà? Si pensa che prima o poi finirà. Ma il lavoro lo trovi a Roma, per forza. E allora si ricomincia. In giacca e cravatta ovviamente. E non si torna per pranzo. Con la mamma che aspetta con la pentola sul fuoco. Si torna per cena. E la cena si prepara quando si arriva. Che non ne hai voglia. Vorresti solo buttarti sul divano a guardare la partita. Stasera gioca la Roma. Ma a pranzo un tramezzino al baretto all’angolo. Insieme agli altri colletti bianchi, spintonando e sgomitando per raggiungere il bancone. Tonno e pomodoro, grazie. E un succo d’arancia. Sì, anche un caffè, ma tra qualche minuto. E adesso la fame si fa sentire. Un piatto di spaghetti. Aglio e olio che si fa prima. Un etto e mezzo. E poi davanti alla televisione a vedere la partita come Fantozzi.
Ma la sera non è ancora arrivata. È mattina. E il cielo sta lentamente passando dal nero al blu all’azzurro. E fa freddo. Chissà perché alla stazione c’è questa bava di vento che sembra di essere in cima al Gavia. E l’attesa del treno è una piccola sofferenza. Le mani in tasca. I piedi intirizziti.
Si scruta il curvone dei binari cercando di avvistare la sagoma della motrice in arrivo. Eccola. In posizione. Ognuno secondo le sue abitudini. In testa, perché poi bisogna correre al capolinea dell’autobus. In mezzo perché lì di solito sale la biondina. A tre quarti perché è vicino al sottopassaggio e si evita la massa. In fondo perché è lì che si gioca a carte con gli amici dell’ATAC.
Qualcuno calcola mentalmente quanti vagoni sono e individua con una precisione matematica il punto esatto dove si fermerà il “suo” vagone.
Si prega di non attraversare i binari. Servirsi del sottopassaggio. Allontanarsi dalla linea gialla. Gli inviti alla prudenza cadono nel vuoto. I ritardatari attraversano affannosamente i binari e corrono verso il treno che fischia generosamente.
Si aprono le porte e tutti salgono alla ricerca, se non proprio di un posto a sedere (per il quale bisogna salire sul treno al buio), di un posto che consenta di sfogliare almeno il “corriere”, per capire se la Roma stasera giocherà con due punte oppure no. Si chiudono le porte. Si aprono i giornali. Cominciano le chiacchiere. Quando ce l’hai chimica? Lo sai che Paolo e Marika si sono lasciati? Quest’anno lo scudetto non ce lo toglie nessuno. Com’è andato privato? E le battute trite e stantie: “Ma che ha bucato?”, “Quando passa la hostess?”…
E inizia così quello che tecnicamente si chiama “viaggio”. Ma che viaggio vero e proprio non è, perché il viaggio del pendolare non è il viaggio del viaggiatore. Perché il viaggio del pendolare appartiene alla categoria dei nonluoghi e dei nontempi, mentre il viaggio del viaggiatore ha un valore in sé. Il viaggiatore (quello vero, non quello mordi e fuggi delle superofferte “all inclusive low cost special price”) vive il viaggio, lo considera un valore (se non proprio “il valore”), l’elemento di continuità tra il luogo di partenza e il luogo di destinazione e, come tale, va scoperto, assaporato e apprezzato.
Quando si chiudono le porte il pendolare pensa a come “arrivare” e quindi a come passare il tempo (il nontempo) che lo separa dalla destinazione. Ognuno usa una sua tecnica.
Qualcuno legge (libri, giornali, appunti delle lezioni). Qualcuno chiacchiera. Qualcuno gioca a carte (sempre il vagone in fondo). Altri si intrattengono con la tecnologia (pc portatili, cellulari, ipod, ecc.).
Qualcuno si diletta in indagini antropologiche sulla variegata composizione umana che – attraverso percorsi e destini incrociati – si incontra forzosamente su quel treno. I più inclini alla socialità sono anche capaci di fare nuove conoscenze. Magari attraverso amici comuni. O, talvolta, grazie alla propria intraprendenza. Un sorriso. Una battuta. E gli sguardi che prima erano fissi, vuoi su un libro vuoi sull’avviso “È pericoloso sporgersi” (anche se i finestrini sono bloccati da anni, perché hanno messo l’aria condizionata), si incrociano, prima in modo apparentemente casuale (e come due magneti della stessa polarità ripartono per direzioni diverse) poi con un po’ di coraggio in modo intenzionale e i due magneti acquisiscono la giusta (e opposta) polarità. E così ci si guarda. Si parla. Si sorride. E il viaggio torna ad essere luogo e tempo. Come quella volta quella biondina.
Ma intanto intorno tutti cominciano a raccogliere le proprie cose. E a indossare giacche e cappotti. Il treno sta entrando in stazione e bisogna nuovamente conquistare una posizione. Quando si aprono le porte il treno vomita fuori una marea di persone che si dirigono con passo sicuro verso la propria quotidianità. Sembrano tantissime. Pensi “E adesso dove le mettono tutte quelle persone?”.
E invece bastano pochi minuti e sono già state assorbite dalla metropoli, che neppure si accorge di tutte queste vite e di tutte queste storie, che adesso arrivano e che stasera non ci saranno di nuovo più.
Metropolitana. Bolgia infernale. Una lotta disumana per salire su un vagone. E poi autobus fino all’ufficio. “Buongiorno dotto’, fatto tardi il treno anche oggi?”. Spiritoso. Facile fare battute abitando a tre isolati dal posto di lavoro. Ascensore. Ufficio. Pratiche. Telefonate. La giornata scivola via lentamente. Pigra. Inutile. Vuota. Quasi come un viaggio in treno (da pendolare). Ecco, è l’ora. Si va a prendere il treno. Certe volte diventa quasi quello il traguardo: il treno. E così scale perché si va in discesa. “Buonasera dotto’, attento a non perdere il treno”. E ancora autobus. Metropolitana. Stazione. Occhio allenato subito sui cartelli elettronici. C’è. È una buona notizia. Il treno c’è. È segnalato. Ed è sul binario. Subito a cercare un posto. Dove capita, capita.
“È libero?”. “Sì, prego”. Giornale. Notizie vecchie. Già fagocitate dal mondo che corre senza guardarsi indietro. Che palle. Posare il giornale. Guardare l’orologio. Partirà in orario? Ecco il fischio. Si parte. E quella di fronte ha un che di familiare. Ma non riesci a mettere a fuoco. È proprio di fronte e guardarla è un gesto che richiede un pizzico di coraggio. Bisogna approfittare del momento adatto, quando – ad esempio – china il capo a frugare in quel mondo misterioso che sono le borse delle donne.
Un’occhiata furtiva. Ma è lei, la biondina. Un po’ è cambiata, ma è sempre molto carina.
Un’altra occhiata, un po’ meno fugace. Quanti anni saranno passati? Dieci, venti, di più? La stessa espressione pensosa e quasi imbronciata. Qualche ruga su quel viso che sembrava perfetto.
Ancora uno sguardo, più intenso, più attento, quasi interrogativo se non proprio indagatore. Chissà che farà adesso? La pendolare, anche lei? E ci sarà qualcuno ad aspettarla a casa? Un uomo, dei bambini?
Ma gli occhi si sono soffermati per un tempo che eccede ogni presunzione di casualità. Alza la testa. E gli sguardi si incontrano. I magneti stavolta hanno subito la polarità giusta (e quindi opposta). Poi lei, ancora una volta, sorride…

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