Ricorrenze di primavera
Accanto alla Pasqua di Resurrezione e a più laici ‘risorgimenti’ come la Liberazione, aprile ci riporta anche a ricordi meno lieti come l’incidente nucleare di Cernobyl, di cui ricorre il ventunesimo anniversario. Non che la storia dell’industria nucleare, sovietica prima, russa poi, difetti di incidenti (l’ultimo risale al 1997), che si ripropongono con una inquietante ciclicità circa ogni dieci anni. E del resto la Russia svolge nel nucleare un ruolo strategico a livello mondiale in quanto da una parte esporta la propria tecnologia a paesi in via di sviluppo, mentre dall’altra importa scorie a fini di stoccaggio e rigenerazione (vende tra l’altro energia a basso costo all’Europa). Ma la vicenda di Cernobyl ci riguarda più da vicino poiché da lì è cominciata, con un progetto partito nel 1994, quell’esperienza dei ‘soggiorni terapeutici’ di bambini ucraini in Italia, che fino ad oggi ha portato nel nostro paese circa 18000 bambini tra i 7 e i 12 anni.
Cosa successe a Cernobyl quel 26 aprile 1986 la TASS lo comunicò soltanto tre giorni dopo e fu la TV tedesca a parlarne per prima. Nel corso di un esperimento all’impianto di raffreddamento del reattore numero 4 a grafite della centrale di Cernobyl, si era verificata un’esplosione e la grafite aveva preso fuoco, bruciando per nove giorni. Il risultato ufficiale fu: 31 morti e 134 irraggiati entro poco tempo dall’evento (Kiev parla invece di 15000 vittime). Gran parte delle radiazioni furono rilasciate nei primi dieci giorni, furono evacuati gli abitanti nel raggio di trenta chilometri, mentre venti e piogge spargevano le radiazioni in varie aree, arrivando ad inquinare un’area tra i 125000 e i 146000 chilometri quadrati tra Ucraina, Bielorussia e Russia. Il 15 novembre 1986 venne infine applicato al reattore un sarcofago di cemento progettato per durare dai 20 ai 30 anni. Il secondo reattore venne fermato nel 1991, il primo nel 1996 e infine il 12 dicembre 2000 venne spento il terzo e fermato così tutto il complesso, tra forti polemiche poiché molti lo ritenevano un gesto dettato dall’estero, e destinato ad accrescere la povertà di quel territorio. Intanto, il più grave disastro nella storia del nucleare civile aveva fatto sentire i suoi effetti in ¾ d’Europa. Ma le vere vittime, condannate a varie patologie, dalle anemie alle più gravi patologie tumorali (ma scientificamente accertate sono solo quelle relative ai tumori tiroidei) restavano gli abitanti del territorio, in particolare i soggetti delle zone rurali, essendo la loro dieta costituita prevalentemente da prodotti locali. E del resto, dopo la disgregazione dell’URSS, i paesi dell’Est in generale si erano trovati a subire un crollo della circolazione e scambio di merci, dovendo di conseguenza impostare economie di tipo autarchico. Particolarmente colpita dunque l’Ucraina e in particolare i bambini, i più soggetti ai tumori tiroidei per la velocità del metabolismo cellulare. Ecco dunque che il Progetto Cernobyl si occupava di predisporre a bambini abitanti in zone con più di dieci curie per chilometro quadrato soggiorni di un mese presso famiglie italiane. Una ricerca dell’ENEA ha infatti dimostrato che un mese di soggiorno in Italia permette di ottenere nei bambini una riduzione dal 30 al 50% di Cesio 137 assorbito. Sull’onda del forte impatto emozionale suscitato da fatti che portavano nel cuore di un’Europa distratta il fantasma della minaccia nucleare, il progetto dei ‘soggiorni terapeutici’ non faticò a decollare. E in seguito a questo intensificarsi di contatti si è incrementata notevolmente in Italia la richiesta di affidamento e adozione di bambini ucraini. Conseguenza questa prevista e in un certo senso paventata nella formulazione del progetto stesso, che tendeva invece a fornire un sostegno contingente ai bambini, non a sradicarli dal loro ambiente. Si suggeriva infatti di non riaccogliere più volte lo stesso bambino, per non innescare da una parte e dall’altra dinamiche affettive volte ad un’appropriazione del soggetto debole da parte della famiglia ospitante. Come in un certo senso è avvenuto nel caso recente della piccola Maria, data in affidamento ad una famiglia ligure italiana e poi all’origine della nota ‘querelle’ diplomatica con il governo ucraino. A fronte di quei pochi fortunati a cui è toccato un destino diverso in un altro paese, resta però la realtà dei molti bambini malati rimasti nel contesto di una povertà dilagante e sottoposti a protocolli di cura ancora legati all’impiego di massicce chemioterapie e spesso ad interventi fortemente demolitivi.
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