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Se la Terra ruota ad altissima velocità e noi saltiamo, perché non vediamo la Terra muoversi  sotto i nostri piedi?

Se la Terra ruota ad altissima velocità e noi saltiamo, perché non vediamo la Terra muoversi  sotto i nostri piedi?
Agosto 21
10:40 2020

La Terra si muove lungo la sua orbita attorno al Sole, poco ellittica e quasi circolare, a una velocità media[1] di 29,78 Km/sec pari a 107210 Km/h, una velocità enorme, di cui non abbiamo alcuna percezione. Ma, poiché il Sole, a sua volta, si muove con una velocità anch’essa enorme, di 250 Km/sec, verso la stella Vega della costellazione della Lira, il moto di “rivoluzione” della Terra attorno al Sole si sviluppa, rispetto alla galassia cui apparteniamo, la via Lattea, lungo un’elica con l’asse nella direzione del moto del Sole verso Vega. Insomma, la Terra si avvita nello spazio galattico nella direzione del moto del Sole verso Vega.

Ma cè un altro moto della Terra che si potrebbe pensare di poter percepire: la sua rotazione attorno al proprio asse. La velocità angolare w del nostro Pianeta attorno all’asse terrestre è costante e pari a 360°/24 h = 15°/h. La velocità lineare v, invece, di un punto della superficie terrestre varia con il raggio di rotazione r attorno all’asse terrestre, secondo la ben nota legge v = wr.  Essa, quindi, è nulla ai poli (essendo r = 0) e massima all’equatore (circa 1670 Km/h, essendo r = 6378,388 Km). Inoltre, alla stessa latitudine, aumenta con l’altezza sul livello del mare. A Roma, alla latitudine di 41,89° la velocità lineare di un punto situato a quota zero è di 1234 Km/h.

Dunque ci muoviamo nello spazio, anche per il solo moto di rotazione terrestre, a velocità veramente impressionanti! Allora, se la Terra ruota ad altissima velocità e noi spicchiamo un salto in alto, dovremmo vedere la Terra muoversi sotto i nostri piedi, ma questo non accade. Perché? La risposta “secca” è semplice: per il principio di inerzia. Per comprenderla, però, occorre spendere qualche parola in più.

La domanda posta è una forma diversa della obiezione che gli aristotelici opponevano al moto della Terra attorno al Sole. Infatti, considerando la Terra in moto attorno al proprio asse (da occidente verso oriente rispetto al Sole), essi sostenevano che l’ammissione del suo moto portava a una conclusione assurda: facendo un salto in alto dovremmo cadere in un punto del terreno più ad occidente, rispetto al punto da cui abbiamo spiccato il salto, mentre invece ricadiamo nello stesso punto. In realtà , per effetto della forza di Coriolì, cadiamo in un punto leggermente ad oriente.[2] Se consideriamo, per esempio, i punti della Terra che si trovano al 45° parallelo (che in Italia corrisponde circa alla latitudine di Torino), si calcola facilmente che essi si muovono da occidente verso oriente alla velocità di circa 1175 Km/h, pari a circa 326 m/sec. Componendo il moto proprio di rotazione della Terra con quello di rivoluzione attorno al Sole,  di  circa 30 Km /sec (29,78 Km/sec) – affermavano gli aristotelici – un uomo che spiccasse in alto un salto, la cui durata complessiva di salita e discesa fosse di un secondo, si troverebbe ad atterrare in un punto più ad occidente, rispetto a quello da cui ha spiccato il salto, di ben 30 chilometri e 326 metri! Ma questo non accade, e allora – concludevano gli aristotelici – la Terra non si muove!

Copernico stesso, Giovanni Keplero e Tommaso Campanella non riuscirono a dare una risposta a tale argomentazione, a danno della piena affermazione della teoria eliocentrica. Il merito di riuscire definitivamente a controbattere quell’obiezione aristotelica al moto della Terra spetta a Giordano Bruno e  Galileo Galilei, con l’enunciazione del principio d’inerzia e del conseguente principio di relatività.[3]

Giordano Bruno, nel dialogo terzo de La cena de le ceneri, riprende l’argomentazione di Aristotele contro il moto della Terra:

(Smitho): «Da quel che respondete a l’argomento tolto da venti e nuvole, si prende ancora la risposta del altro, che nel secondo libro Del cielo e mondo apportò Aristotele, dove dice che sarebbe impossibile che una pietra gittata a l’alto, potesse per medesma rettitudine perpendicolare tornare al basso: ma sarrebbe necessario che il velocissimo moto della terra se la lasciasse molto a dietro verso l’occidente».

Qual è la soluzione che per primo Giordano Bruno propone, per spiegare ciò che in realtà, al contrario, avviene? Eccola, sempre dal dialogo terzo de La Cena de le ceneri:

(Teofilo): «Or per tornare al proposito: se dumque saranno dui, de quali l’uno si trova dentro la nave che corre, e l’altro fuori di quella, de quali tanto l’uno quanto l’altro abbia la mano circa il medesmo punto de l’aria; e da quel medesmo loco nel medesmo tempo ancora, l’uno lascie scorrere una pietra, e l’altro un’altra, senza che gli donino spinta alcuna: quella del primo senza perdere punto né deviar da la sua linea, verrà al prefisso loco; e quella del secondo si trovarrà tralasciata a dietro. Il che non procede da altro, eccetto che la pietra che esce dalla mano del uno che è sustentato da la nave, e per consequenza si muove secondo il moto di quella, ha tal virtù impressa quale non ha l’altra che procede da la mano di quello che n’è di fuora, benché le pietre abbino medesma gravità, medesmo aria tramezzante, si partano (se possibil fia) dal medesmo punto, e patiscano la medesma spinta. Della qual diversità non possiamo apportar altra raggione, eccetto che le cose che hanno fissione o simili appartinenze nella nave, si moveno con quella: e la una pietra porta seco la virtù del motore, il quale si muove con la nave; l’altra di quello che non ha detta participazione».

Le parole di Teofilo esprimono implicitamente e in maniera suggestiva il principio d’inerzia, anche se non nella forma esplicita odierna: un corpo, non soggetto a forze o soggetto a una risultante nulla di forze, persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. La pietra lasciata cadere all’interno della nave cade perpendicolarmente rispetto a questa (tralasciando la forza di Coriolì), perché, non essendo ad essa applicata nessuna forza orizzontale in grado di modificarne il moto nella direzione della rotta della nave, anche quando è in aria tende a mantenere il moto rettilineo uniforme che condivideva con la nave prima del lancio («… le cose che hanno fissione o simili appartinenze nella nave, si moveno con quella»).

Galilei riprende l’esempio della nave, che diventa il “gran navilio” della seconda giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, proponendo una serie di esperimenti il cui laboratorio non è più né la Terra né soltanto l’interno di una nave, ma quest’ultimo e una spiaggia, dalla quale si può vedere se la nave si muove o sta ferma. Questo cambiamento di scenario delle «sensate esperienze» proposte da Galilei è fondamentale sul piano psicologico e scientifico. Tanto nel caso della Terra quanto nel caso della nave, le esperienze si svolgono all’interno del “sistema” (Terra o nave) di cui esse vorrebbero dimostrare la quiete o il moto, senza però poter avere una prova “esterna” del suo stato, poiché stando sulla Terra o sulla nave non possiamo “vedere” se la Terra o la nave si muove o sta ferma. Il contrario è possibile nel secondo caso, preso in considerazione da Galilei: il laboratorio dell’esperimento della caduta di un grave è ancora una nave, come nel caso del Filosofo nolano, ma i punti d’osservazione sono ora due: uno interno alla nave e l’altro esterno, sulla spiaggia. È da quest’ultimo che si può verificare se la nave sta ferma o si muove.

Dunque, l’interpretazione dei risultati degli esperimenti, in relazione allo stato di quiete o di moto della nave, risulta ora inequivocabile. Se il sasso lanciato, nella nave, verticalmente in alto risultasse cadere lungo la verticale passante per il punto di lancio, sia quando la nave è ferma sia quando si muove di moto rettilineo uniforme, tale risultato non potrebbe essere più proposto (come pretendevano gli aristotelici) quale prova della quiete della nave (ma neanche del suo moto). Se così fosse, allora, considerando per analogia lo stesso fenomeno ‘ambientato’ sulla Terra, decadrebbero le obiezioni aristoteliche contro il moto terrestre, perché non dimostrerebbero che la Terra sta ferma (e neanche che si muove).

Ma sentiamo cosa dice Galilei di questo esperimento e di altri realizzati «nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio»:

 

«[…] quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti […]. Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder così, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma. […] E di tutta questa corrispondenza d’effetti ne è cagione l’esser il moto della nave comune a tutte le cose contenute in essa ed all’aria ancora… »

Galilei, dunque, con straordinaria dovizia di esempi, illustra lo stesso principio d’inerzia già evidenziato da Bruno, ma va oltre, perché esprime esplicitamente anche una sua conseguenza fondamentale, il principio di relatività (detto perciò principio classico di relatività o di Bruno-Galilei): nessuna esperienza meccanica eseguita all’interno di un sistema isolato (ovvero soggetto a  forza risultante nulla) può rivelarci se esso è fermo o si muove di moto rettilineo uniforme, ovvero le leggi della meccanica sono invarianti rispetto a sistemi quiescenti o in moto rettilineo uniforme.

Le parole di Galileo Galilei ci rivelano anche che, essendo derivabile dal principio d’inerzia, il principio classico di relatività non è, a rigore, un ‘principio’, ma più correttamente una legge.

 

 

[1] La seconda legge di Keplero sulle orbite planetarie afferma che la velocità areolare della Terra attorno al Sole è costante, vale a dire il raggio vettore che congiunge il Sole con la Terra ricopre aree uguali in tempi uguali. Ma poiché l’orbita della Terra è leggermente ellittica, la sua velocità lineare varia lungo l’orbita stessa, risultando minima all’afelio (dove la Terra è più lontana da Sole) e massima al perielio (dove la Terra è più vicina al Sole). Infatti, le aree spazzate dal raggio vettore in tempi eguali all’afelio e al perielio risultano sottese da archi di ellisse di diversa lunghezza: minore all’afelio che al perielio; pertanto la Terra all’afelio, dovendo percorrere un tratto di orbita di minor lunghezza rispetto a quello coperto nello stesso tempo al perielio, deve diminuire la sua velocità lineare rispetto a quella che ha al perielio.

[2] La forza di Coriolì è una forza apparente, che interviene nello studio del moto di un corpo  rispetto a un sistema di riferimento in moto rotatorio rispetto a un sistema di riferimento inerziale. Essa quindi deve essere considerata nello studio del moto di un corpo rispetto a un sistema di riferimento solidale con la Terra, che ruota attorno al prorio asse.

[3] Tuttavia già in Niccolò Cusano era presente in maniera velata l’idea del pricipio d’inerzia quando, per dimostrare la relatività del moto, scriveva: «Se infatti uno, stando su una nave, non vedesse spiaggia, come mai potrebbe arguire che la nave si muove?», diceva Cusano, ricorrendo al classico esempio della nave, che sarà successivamente  ripreso da Giordano Bruno (1548-1600) e poi da Galileo Galilei (1564-1642). Cfr. N. Krebs (N. Cusano), De Docta Ignorantia, XIII capitolo,  II Libro (circa 1440).

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