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Tosca tra fedeltà e interpretazione

Tosca tra fedeltà e interpretazione
Luglio 01
02:00 2008

Scelta quest’anno a inaugurare la stagione dell’Opera di Roma, e replicata poi in primavera, Tosca, con la direzione di Gelmetti, per la regia di Zeffirelli, ha debuttato proprio il 14 gennaio, data storica della sua prima rappresentazione nel 1900. Scelta non casuale, se si pensa che quella data coincideva anche con la battaglia di Marengo, che in qualche modo ‘entra in scena’ alla fine del primo atto, con l’arrivo delle notizie contraddittorie sul suo esito, dando occasione alla celebrazione del Te deum. Tempo della storia: 14 gennaio 1800, e tempo del racconto: 14 gennaio 1900 erano stati volutamente sovrapposti, quasi ad alludere simbolicamente a quel secolo che l’opera sembra per intero ‘assorbire’, contenendo in sé l’eredità del primo e i germi del secondo. Nelle 24 ore dell’azione (dalla mattina del sabato a quella della domenica) si intrecciano infatti tumultuosamente tutti i sentimenti e le emozioni che l’Ottocento aveva generosamente vissuto ed esaltato: passione erotica e passione civile, realtà e finzione, lealtà e inganno, amore e morte. Una drammaturgia a tinte forti, dunque, un “dramma che si impone troppo e invade il libretto” (come già osservava Illica, a cui ne era stata affidata la stesura), lasciando poco spazio alle sfumature, all’allusione e alla poesia, alle corde cioè più care a Puccini. Che a Tosca arrivò gradualmente, attraverso una sorta di ‘corteggiamento’ durato circa un decennio. Molto colpito nell’’89 dalla rappresentazione del dramma di Sardou nell’interpretazione di Sarah Bernardt, Puccini aveva subito manifestato il suo entusiasmo a Ricordi, che si era affrettato a chiedere all’autore la cessione dei diritti. Le lungaggini della contrattazione avevano però indotto il maestro a rivolgersi alla composizione di Manon e successivamente di Bohème, finché tra l’estate 1895 e l’autunno 1899 non tornò a lavorare sulla partitura di Tosca, sul “libretto straordinario” (come egli stesso lo definì) di Illica e Giacosa. Il forte impatto drammatico della vicenda non fu sufficiente però a garantire all’opera un successo incondizionato presso la critica, parte della quale ne stigmatizzò proprio le tinte forti, senza coglierne i risvolti di sensibilità più ‘ottocentesca’, in quel connubio tra eros e intima religiosità, contrapposti al velo di una religio esteriore e celebrativa disteso sull’ordito resistente di brutalità e cinismo di cui ogni potere, e non solo quello temporale della Chiesa, si sustanzia. Tra le stroncature celebri ricordiamo quella di Mahler che valutò l’opera nel suo insieme con grande superficialità, limitandosi a concludere che “il tutto è messo insieme come sempre con abilità da maestro; al giorno d’oggi ogni scalzacane sa orchestrare in modo eccellente”. Riconoscendo con ciò involontariamente lo spessore del tessuto sinfonico, nel quale la funzione narrativa non si dispiega solo nell’uso ancora impacciato del Leitmotiv ma investe anche l’elemento melodico, che non resta più confinato solo in pezzi chiusi e romanze, come nel costume statico di certo melodramma ottocentesco, ma si insinua in molte situazioni che nel passato sarebbero state relegate a semplice recitativo. Realizzando così una omogeneità fluida del discorso musicale come continuum narrativo tutto novecentesco, che nella sua pregnanza espressiva non richiede, anzi mal sopporta, stravaganti ‘aggiornamenti’ scenici. Come giustamente ha sottolineato Zeffirelli, che di questa edizione firma la regia, ribadendo ancora una volta l’opportunità e il valore della fedeltà alle indicazioni dell’autore, perché “la regia era tutta scritta. Specie in Puccini…E’ tutto preordinato, non solo attacchi, andature, movimenti scenici, ma movenze dell’anima dei personaggi, accenti, recitazione, gli atteggiamenti connessi alla tessitura del dramma. E’ tutto lì, nella sua musica…I registi hanno solo il dovere di raccontare bene la storia come è stata affidata, non tanto dalla tradizione, ma dall’autore”. Diversamente Gelmetti, pur reputando Tosca “un capolavoro di strumentazione, di armonizzazione, di drammaturgia”, sostiene che “nel dirigerla e nell’interpretarla non si può puntare solo sul fatto che non ci sia niente di sbagliato nella sua costruzione”. Sarebbe infatti “un errore l’essere troppo rigoroso dal punto di vista filologica o musicale riguardo la partitura”, come lo è del resto “eccedere nelle brutture entrate nella prassi”. Se è troppo facile “liquidare come non filologico tutto ciò che non è scritto sulla partitura”, occorre invece chiedersi “quanto un capolavoro sia diventato patrimonio di tutti e quanto sia ancora importante fare riferimento alle volontà del compositore”, e inseguire di conseguenza una sorta di “filologia dell’immaginario”. E importante soprattutto, in un’opera così “piena di musica…di elementi desunti da una larga cultura europea” è “riuscire a tirare fuori tutto, a far capire quello che c’è di straordinario nel suo linguaggio eterogeneo, dovuto al fatto che Puccini metabolizzava tutta la musica che lo circondava”. Il risultato finale di questa edizione, e il suo pregio, è comunque quello di una coerenza complessiva, cui sicuramente giova l’interpretazione passionale del soprano Myrtò Papatanasiu, a cui non fanno difetto né potenza vocale né presenza scenica; mentre anche Silvio Zanon nei panni del barone Scarpia riesce piuttosto convincente.

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