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La scrittura della medicina – 1

Dicembre 09
17:04 2010

Immaginate di trovarvi in una corsia d’ospedale, di camminarvi dentro, di correre da una stanza all’altra. Quasi non sentite le dita che stringono il dorso ruvido del vostro inseparabile quaderno per gli appunti; quasi i tasconi del camice non sembrano carichi del peso di matite, penne, termometri e del fedele stetoscopio. Il vostro passaggio è lucido, aereo, simile al vento che vi viene incontro dalla finestra alla fine del corridoio, ambasciatore delle istanze di tutti gli esseri umani, oltre voi, che sono qui. Perché qui non si è mai soli: non c’è solitudine in una corsia d’ospedale, che non si scontri, invariabilmente, con altre solitudini. I passi dei medici, quel biancheggiare sul celeste e sul verde attirano i pazienti che spesso rompono le file d’attesa. Infermieri e capisala intessono trame di potere e protezione alle vicende che s’inscenano sulla liscia superficie dei pavimenti; cortei di familiari preoccupati e sorridenti uniscono l’imbarazzo urbano al folklore tribale e, se siete in una clinica universitaria, sorprenderete studenti pronti a occhieggiare ovunque, curiosi, rumorosi nei loro colori, nella preoccupata spensieratezza degli anni universitari…Immaginate, dunque, una corsia d’ospedale: ve n’è una, e anzi forse più d’una per ciascuno di voi. Forse, una diversa per ogni volta che la sorte vi ha tratti in quel luogo. Perché non esiste altro luogo come l’ospedale che abbia così fortemente influenzato e catalizzato l’immaginario, ne abbia permesso la rappresentazione e l’analisi: paura della morte e del dolore, angoscia e desiderio di salvezza, ritratti di vizi e grandezza morale, e irresistibili pulsioni alla gioia: vi è, in una parola, lo svelamento dell’essere umano e in quest’atto si scopre tutta la sua bellezza. Sì, nella corsia d’ospedale si sono radunate decine di storie, fatte di uno sguardo o di un gesto, d’una parola, di un’immagine offerta con inconsapevole e totale generosità. L’ospedale è un luogo di umanità nuda, che vi si offre per quella che è: a voi guardare, a voi sondare, a voi auscultare, sentire, odorare. Leggere, leggere, sì: è quello che il medico deve fare, ancor prima di domandare, di raccogliere anamnesi e di formulare idee. Deve leggere. Intendere i segni che si affacciano sul mutevole mosaico della pelle, con quella pelle dialogare, e là dentro immergersi, per comprendere. L’atto terapeutico inizia con un atto d’immaginazione; di pensiero in relazione all’essere umano che il medico ha di fronte. Giustamente fu definita1 “arte medica”: la certezza, la sicurezza che in altri campi del sapere scientifico sembra tagliare con precisione i confini di numeri, misurazioni, leggi e teorie – là dove anche l’errore può essere oggetto di calcolo – nella Medicina svela la fragilità delle sue basi. Solo il corpo conta, quello specifico corpo che vi è davanti, svelato eppure impenetrabile. Perché il corpo è il luogo di tutti i racconti, il fondamentale punto di partenza, la pagina di carne, materia vibrante da cui comincia e in cui finisce la letteratura che ha per autore un medico-scrittore: la “scrittura della medicina”. (Continua)
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1 Basti pensare al motto «Lo scopo dell’arte medica è la salute, il fine è ottenerla» di Claudio Galeno di Pergamo, da De Sectis, in Opere scelte, a cura di I. Garofalo, M. Vegetti, UTET, 1978.

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