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Le note dell’Inno di Mameli nell’Aula Consiliare

Aprile 13
22:00 2011

ad una rilettura attenta e con un serio approfondimento storico, ci si rende conto che esso ricalca un vero programma di vita più che mai necessario in questo periodo; rivaluta il concetto di uno Stato unito, coeso, nel quale il primato deve essere della collettività, scavalcando gli individualismi; una Nazione nella quale gli Italiani devono sentirsi “fratelli”, figli di una stessa madre ed eredi di una stirpe dalla storia eroica come quella di una Roma antica con la quale volle unificarsi il popolo italico, divenendo uno Stato destinato ad un futuro glorioso, quando le attuali civiltà europee non erano ancora nate. Un brivido di fierezza nell’Aula Consiliare di Rocca di Papa, il 27 gennaio, ha accomunato un uditorio attento alle vibranti parole del Professor Franco Tamassia docente di Diritto Pubblico presso la Facoltà di Economia dell’Università di Cassino. Coinvolgente nella dialettica e nei colti riferimenti storico-letterari del relatore, lo stimolante incontro “L’Inno di Mameli: Italia da espressione geografica ad un comune sentire”, è stato organizzato dall’Associazione culturale L’Osservatorio, nella persona di Antonia Di Lonardo che ha introdotto la conferenza insieme a Claudio Santangeli, alla presenza del Primo Cittadino Pasquale Boccia e di un attento, interessato pubblico. Scritto nel 1847 da un giovanissimo Goffredo Mameli, morto a soli ventidue anni per una ferita ricevuta durante la difesa della Repubblica Romana, musicato da Michele Novaro, l’Inno è il “Canto degli Italiani” che si rifà al programma mazziniano, dove il popolo è un soggetto a se stante, dotato di una propria spiccata personalità. Ma torniamo indietro di poco più di un secolo e mezzo, in pieno Risorgimento e saremo testimoni di un eroico momento di riscatto di un’Italia divisa per troppo tempo in diversi Stati, sotto la dominazione dei Borboni nel Sud, degli Austriaci nel Nord, del Papa e dello Stato Pontificio nel Centro, dei Savoia nel Regno di Sardegna, con una manciata di piccoli staterelli tra un confine e l’altro. Spiccano in quel periodo figure di alto valore come Mazzini, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele II, trascinatori di eroi chiamati alla lotta, alla ribellione da un rigurgito di orgoglio. Quel “Stringiamoci a coorte …” è l’urlo del giovanissimo poeta che grida al riscatto, che anela al risveglio nella coscienza di tutti della necessità di unirsi, superando gli individualismi, sotto un unico simbolo, quel tricolore che era faro e luce per i patrioti. E il rinnovato slancio è proprio quello che spinge a mettere l’elmo della vittoria, gloriosa e immortale proprio come quella di Scipione l’Africano vincitore su Annibale a Zama. Nell’inno si legge tutto l’amor proprio e la grande cultura che l’autore dispiega per incitare gli Italiani alla lotta di liberazione: siamo tra il popolo dei Comuni lombardi che a Legnano sconfigge l’imperatore Barbarossa: una Lega lombarda vittoriosa che è un inno all’unità, non alla secessione; stringiamo nella mano quel sasso che Gianbattista Perasso, il Balilla genovese scaglia con rabbia contro gli Austriaci e che fa brillare tra la cittadinanza la miccia della rivolta popolare; vibra in noi la rispettabilità di Francesco Ferrucci che difende Firenze contro l’imperatore Carlo V ed in punto di morte dà lezione di cavalleria e dignità al mercenario Maramaldo; ci lasciamo coinvolgere nella ribellione siciliana dei Vespri contro i Francesi. Immortali pagine di storia scritte in un’Italia che era stata definita “espressione geografica” dallo straniero che ci disprezzava, che contribuiva ad alimentare in noi un senso di sfiducia, rassegnazione, umiliando e calpestando ogni nostra dignità. Questo quanto denunciavano i patrioti cercando di scuotere il torpore nel quale gli Italiani parevano essere caduti. Pur pervaso da una mentalità laica, il nostro Inno Nazionale è una lirica sacra che rispecchia il programma della vera religione umana: quella della ragione, della reale conquista della dignità di un popolo che ha il dovere e il diritto di essere unito nella ricerca della Libertà, quella stessa che eleva l’Uomo e lo immortala nella Storia. Non male sarebbe in questo anniversario dei centocinquanta anni dell’Unità di Italia che la Storia, quella epica che i nostri Padri della Patria hanno scritto nei secoli, venisse riletta e studiata con vera consapevolezza di essere Italiani, senza strumentalizzazioni e censure; con umiltà e serietà, evitando fraintendimenti dovuti a una colossale ignoranza alimentata dalla presunzione di coloro che “con la cultura non mangiano”, ma che si saziano, anche troppo, con quelle che dovrebbero essere le risorse di questa nostra bella Italia, ormai stanca di essere presa per i fondelli e non più disposta ad essere lo zimbello degli altri Paesi del mondo. Il senso dell’onore e dignità non possono più attendere e nessuno di noi, credo, è disposto ad essere cittadino di quell’Italietta pre-unitaria. Lo stesso Voltaire diceva: «La Terra degli Arlecchini tornerà ad essere la Terra degli Scipioni». Che aspettiamo?

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