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Le polemiche sul 150° dell’Italia unita

Maggio 24
10:24 2010

Sgombriamo subito il campo. L’Italia come Stato unitario non si tocca. Da 150 anni siamo una sola nazione, unita: questa è l’unica realtà possibile e l’unico destino auspicabile. E fa bene il presidente Napolitano a spiegarlo e sottolinearlo con la chiarezza e l’autorevolezza che gli sono propri. Ma nel ribadire questo con ogni energia e fermezza, non possiamo però far finta che le cose – in passato – siano andate come fa comodo e non secondo realtà. Le polemiche di Bossi circa le celebrazioni dell’Unità d’Italia sono sicuramente inopportune, tardive, faziose e quant’altro di negativo si possa rimproverare al riguardo, ma l’unica cosa di cui non lo si può certamente accusare è quella di fare affermazioni infondate. Molta parte degli storici è ormai d’accordo, sia pure sommessamente, sul fatto che l’unificazione d’Italia non fu il frutto d’un moto popolare trasversale agli Stati preunitari ma solo un insieme di campagne militari volute dai Savoia per allargare il regno sardo-piemontese: quanto a Mazzini (un fervente repubblicano!) e Garibaldi (un ardente rivoluzionario!) furono solo utili pedine in mano all’abilissimo Cavour, l’uno per conferire alle operazioni un’alta e nobile giustificazione ideale che non avevano e l’altro per fare sui campi di battaglia il lavoro più “sporco”. E il popolo? Gli italici d’ogni regno e ducato, almeno nelle più larghe fasce, rimasero sempre sostanzialmente estranei a quel progetto nazionale che ignoravano e che, quando non lo ignoravano, non capivano. Non dobbiamo infatti dimenticare un elemento fondamentale: l’altissimo tasso di analfabetismo. Libri e giornali li leggevano e li discutevano solo gli intellettuali, mentre il basso popolo si limitava ad ascoltarli – se mai aveva forza e volontà per farlo, visto che lavorava finanche più di dodici ore al giorno.
A parte fenomeni rivoluzionari del tutto episodici e locali – che come tali possiamo infatti ricordare uno per uno – le varie popolazioni si guardarono bene dal dare fattivo appoggio alle annessioni: più che altro si limitarono a prenderne atto, ben sapendo da secoli che – in fondo – per ogni padrone scacciato ce n’è sempre un altro che viene a prenderne il posto. La stessa aggressione allo Stato Pontificio avvenne esclusivamente per via militare perché non ve n’era altra percorribile. Quanto a Roma in particolare, il governo piemontese sperò ardentemente fino all’ultimo minuto che anche un minimo moto di popolo entro le mura potesse concedergli il pur labile pretesto per giustificare l’intervento armato, ma invano. Per entrare in Roma, capitale pacifica di uno Stato sovrano e neutrale, i piemontesi “liberatori” dovettero sfondare le gloriose mura Aureliane a colpi di cannone: già all’epoca, quindi, la democrazia veniva forzosamente esportata a colpi d’artiglieria. Il semplice fatto che un regime sia discutibile e poco liberale non dà a nessuno il diritto di invaderne le terre. E’ un copione antico ma ancor oggi attualissimo in altri contesti. Del resto, non a caso, già un secolo prima il Re Sole aveva fatto incidere sui suoi cannoni la frase “Ultima ratio regum”: l’ultima ragione dei re, come a dire che quando le armi delle parole e della diplomazia erano ormai scariche solo le armi da fuoco potevano imporre unilateralmente la volontà sovrana. L’eterna favola del lupo a monte e dell’agnello a valle.
Già che abbiamo parlato di Roma, vale la pena di porre uno scomodo interrogativo. Perché il fiero popolo romano – coi “liberatori” ormai alle porte – non si sollevò in armi contro quel papa “tiranno” e “liberticida” a cui pure non risparmiava critiche feroci? Semplice: non ne aveva nessun motivo. Partiamo dal presupposto che alla analisi dei fatti storici deve presiedere l’ermeneutica, ossia la capacità di leggerli con gli occhiali di quel tempo e non con i nostri di oggi. Sotto il profilo degli ideali, viveva nella capitale mondiale del Cattolicesimo e prospettive più alte quindi non potevano esservene. Sotto il profilo economico, il sistema di potere ecclesiastico dava pane e lavoro diretto o indiretto a quasi tutta la popolazione. Sotto il profilo sociale, poi, non c’era in fondo di che lagnarsi, stanti i tempi: la pressione fiscale era la più bassa d’Italia e i meno abbienti erano esenti da imposte; l’assistenza sanitaria era eccellente per quantità e qualità dell’offerta; la città letteralmente traboccava di istituzioni che assistevano socialmente i più disagiati; i condannati per reati esclusivamente politici – attorno al 1860 – erano appena lo 0,01% della popolazione carceraria. Citiamo un episodio emblematico. Il 22 ottobre 1867 un pugno di rivoluzionari, tutti venuti da fuori Roma, tentò di accendere vari focolai di sedizione con bombe e attacchi armati, ma tali spunti furono prontamente annullati dalle forze pontificie. Quella stessa sera Pio IX uscì in carrozza su via del Corso, nel momento di maggior affluenza popolare, ed al suo passaggio la gran folla festante faceva a gara per inchinarsi devotamente. Uno dei rivoluzionari, Vittorio Ferrari, nell’ammirare attonito quello spettacolo alzò le braccia e disse sconsolato agli altri cospiratori : “Ma noi, qui, che ci siamo venuti a fare?”.
Tutto ciò non vuole assolutamente dire che Roma era un paradiso terrestre, ma soltanto – in termini di qualità della vita – che il romano di quel tempo non aveva nulla da invidiare sia agli stessi piemontesi che ai sudditi di altre grandi nazioni come Francia e Inghilterra. Di contro, erano proprio le classi più elevate ma numericamente meno consistenti – aristocratici, borghesi e intellettuali – quelle che in genere sposavano con più ardore la causa italiana, magari non sempre per motivi puramente idealistici. Guarda caso, ai vari plebisciti locali per le annessioni partecipavano solo coloro che avevano diritto al voto, ossia – quanto meno – chi sapeva leggere e scrivere: il popolino non lo interpellò nessuno, si limitò a seguire la scia. Quando al Congresso di Vienna, ben mezzo secolo prima, il principe von Metternich aveva sentenziato con durezza che “l’Italia è solo un’espressione geografica” sapeva molto bene quel che si diceva. Circa i Savoia, hanno di certo scontato l’anatema lanciatogli da Pio IX: re e duchi delle proprie terre per oltre un millennio, furono re d’Italia per soli 85 anni. Qualcuno, nel 1946, in aggiunta commentò “ma chi glielo ha fatto fare?”.
Più in generale, non va poi dimenticato che nel meridione d’Italia tutti i fenomeni di insorgenza contro i nuovi padroni furono bollati sbrigativamente con l’etichetta di “brigantaggio”. Per carità, di briganti e ladroni in senso stretto ve n’erano in abbondanza, ma non tanti da giustificare il massiccio impiego dell’esercito regolare in assetto da battaglia e dello strumento di ferreo controllo del territorio chiamato “stato d’assedio”. Qualcuno ha parlato di Vandea italiana, in qualche analogia con le stragi che la “civile” Rivoluzione Francese fece dei contadini rimasti fedeli al “vecchio regime”, la monarchia: altro fulgido esempio di democrazia imposta con le baionette. La famosa Madame Roland cadde vittima della rivoluzione che lei stessa aveva sostenuto e mentre veniva condotta alla ghigliottina pronunciò una frase che è ancor oggi efficace e profetica a tutto campo: “Libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome!”.

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