Margarita e il gallo
In scena fino al 18 novembre al Teatro Valle, per la sapiente regia di Ugo Chiti e nell’allestimento del Teatro Stabile di Firenze, la deliziosa operina Margarita e il gallo del drammaturgo lombardo Edoardo Erba.
La commedia, di ambientazione cinquecentesca, ricalca per struttura il modello rinascimentale non indenne, come è noto, da certo programmatico schematismo. Conosciuti sono tipi e procedimenti teatrali: il travestimento e il ribaltamento dei ruoli, la contrapposizione di registri linguistici, la coppia serva/padrona, il religioso di turno. Ma, all’interno di questi, e delle evidenti simmetrie strutturali, l’autore immette una ‘perla’, Margarita appunto (secondo l’etimo greco del nome), che fa decollare il testo ai vertici di una stataria terenziana, per la risentita e dolente umanità che la protagonista man mano rivela.
Margarita, che porta con sé un po’ del sentore sulfureo letterariamente intrecciato al suo nome (dalla Margherita del ‘Faust’ a quella del ‘Maestro e Margherita’ di Bulgakov), è una povera ragazza, figlia di una strega. Abbandonato il paese lombardo d’origine per l’emarginazione di cui è vittima, approda a servizio nella casa fiorentina del ‘conte’ Annibale Guenzi. Qui la padrona, ‘sciora’ Bianca, impartendole le istruzioni per il servizio, la sottopone anche ad un serrato interrogatorio prima di assumerla. Ma anche la ragazza, nella sua goffa naturalezza, non manca di fare indagini e acute osservazioni: il salotto troppo piccolo per ricevere, la mancanza di una numerosa servitù, il ‘signor conte’ divenuto tale per matrimonio. Comincia così un lento ribaltamento dei ruoli: l’ossuta e composta signora Bianca, che dalla nobile famiglia d’origine ha ricevuto in eredità solo il titolo e la dignitosa rigidità svela a poco a poco la realtà di una condizione modesta socialmente ed economicamente, raggiunta sfuggendo alla monacazione attraverso il matrimonio col piccolo tipografo Annibale (e come non pensare di fronte a questo personaggio alla verghiana Bianca Trao?). Contrapposta alla sobrietà (anche linguistica) della padrona dilaga la straripante vitalità della serva con il suo corpo giovanilmente esuberante e l’irrefrenabile vernacolo (tradizionale nell’uso letterario a caratterizzare lo sciocco, il sempliciotto proveniente dal contado o in generale dalle classi subalterne) che in breve travolge la contenuta padrona. Questa comincia così a guardare con rinnovato interesse quella curiosa creatura che per di più ha cominciato a discorrerle di un incantesimo appreso dalla madre strega, capace di entrare nel corpo di animali per sfuggire all’Inquisizione. Ma qui la conversazione viene interrotta dall’arrivo del conte Annibale, subito insofferente verso quella nuova serva ingombrante ed impicciona. Infatti Annibale ha convocato il consigliere spirituale della moglie per sottoporgli un suo progetto che gli consentirebbe di sfuggire alla stenta situazione presente andando a imprimere statuti e gride come tipografo di corte. Blandendo la vanità del religioso con la promessa di pubblicargli certi suoi versi, lo convince a parlare con la contessa affinché questa consenta alla ‘proposta indecente’ che ha in mente di farle. Infatti Annibale ha trovato a corte una raccomandazione: il Visconte Morello, cugino del Granduca, il ‘gallo’ appunto. Personaggio potente, ma con un vizietto: pescare ‘al buio’ nel pollaio della cortigianeria quelle mogli che accetteranno di sottoporglisi ‘a tergo’. Ed è questo che il lungimirante Annibale ha già promesso al Visconte. Ma proprio mentre il compiacente religioso si prepara a parlare con la contessa, questa viene richiamata al capezzale della madre morente. Restano, soli, la serva petulante e il conte, furioso perché vede sfuggirgli l’opportunità che non si era fatto scrupolo di cogliere al volo. Infastidito dall’invadenza premurosa della ragazza Annibale la licenzia, ma questa, che non saprebbe dove andare, gli promette incondizionata obbedienza. Ed ecco che alla disinvolta coscienza del tipografo si affaccia subito la soluzione: la ragazza vestirà i panni della contessa e, opportunamente ammaestrata, offrirà lei al Visconte quella parte che Bianca ha fortunosamente salvato. Margarita, che stupida non è, quando capisce quale dovrà essere il suo ruolo, dà sfogo alla disperazione in un dolente monologo sulla condizione che non le lascia vie d’uscita. Quand’ecco un ronzante moscone (nel quale la ragazza riconosce la madre strega) le suggerisce la salvezza: faccia Margarita stessa l’incantesimo che ha visto fare a lei. Operata la magia, Margarita si ritrova nel corpo di Annibale e quest’ultimo, sbalordito, si scopre trasformato nella serva. Così, quando compare finalmente il Visconte con incedere ‘gallesco’ (e con molto dannunziano sembiante e movenze) resta piacevolmente sorpreso di fronte ad una moglie tanto femminile nell’aspetto quanto virile nei modi e nella concettosa eloquenza. Tutto ciò, mentre nella stanza si aggira l’Annibale-Margarita intento alle donnesche occupazioni che a quella sono familiari.
Infine Annibale, tradito dal suo stesso cinismo, non potrà fare a meno di cedere al Visconte. Così Margarita, se non ha potuto sottrarre il corpo all’ingiuria cui la sua condizione sociale e di genere la condannano, salverà almeno l’anima, preservandola intatta al riparo del corpo maschile che ‘indossa’. Annibale invece da quel corpo femminile in prestito trarrà tanto impensate e coinvolgenti emozioni da umiliarsi a pregare Margarita, una volta tornati ciascuno in possesso del proprio corpo, di ripetere in futuro ogni tanto l’incantesimo. Il Visconte Morello, per ultimo, preso da ardente passione per quella donna che incarna per lui la duplicità di genere fino ad allora invano inseguita, chiederà in moglie Margarita promettendo di rinunciare per sempre al suo ‘gallismo’. Su consiglio di Bianca, la ragazza coglierà l’occasione offertale dalla ‘fortuna’ che ella ha saputo secondare con la propria ‘virtù’.
Ecco così ricomposta secondo la più perfetta etica rinascimentale ogni contraddizione: ‘virtù’ dell’uomo/potenza della ‘fortuna’, sacro/diabolico, norma/trasgressione all’interno della ristabilita convenzione sociale suggellata dal crisma finale del matrimonio. Metafora di ogni corruzione indotta dal potere, di ogni purezza violata o preservata, l’operazione letteraria di Erba ci mostra come il passato possa diventare presente e carne la letteratura nelle mani di un giocatore sapiente.
Straordinaria l’interpretazione di Maria Amelia Monti. Bravi tutti gli altri.
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