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Foibe : un salto nel vuoto durato cinquant’anni

Febbraio 21
17:11 2009

11 febbraio 2009

«… va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe (…) e va ricordata (…) la “congiura del silenzio”, “la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio”. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali» (il Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napoletano, 10 febbraio 2007)

Solo a partire da metà degli anni ’90, a seguito dei dibattiti provocati dal crollo del comunismo in Europa, che il termine “foibe” uscì dall’oblio e cominciò a essere discusso. La memoria degli avvenimenti che riguardano questo tema rimase per lo più ristretta per quasi cinquant’anni nell’ambito degli esuli e di commemorazioni locali. Solo una parte della destra ha sostenuto le ragioni dei massacri delle foibe. Dal 2005 la giornata del 10 febbraio è dedicata alla commemorazione dei morti e dei profughi italiani. Non a caso questa data ricorda il trattato di Parigi siglato nel 1947 che assegnò alla Jugoslavia il territorio occupato nel corso della guerra dall’armata di Tito.
Sono detti massacri delle foibe (foibe ovvero inghiottitoi, enormi pozzi di natura carsica) le uccisioni di circa 15mila italiani, compiute per motivi etnici-politici dall’Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia, alla fine della seconda guerra mondiale. Il periodo storico va inserito in un momento definibile “comunismo-nazionalista” jugoslavo e di conseguenza contro le minoranze etniche italiane, indifese dopo la sconfitta.
Vi erano sin dalla fine del 1800 diverse fazioni per nazionalizzare Istria e Dalmazia sotto la guida: italiana, slovena, serba e croata. Ciascuna delle fazioni cominciò a lottare per riunire le proprie terre alle rispettive “madrepatrie”. Il sorgere “dell’irredentismo italiano” portò il governo asburgico a favorire il sorgere di un nazionalismo croato contro le bene organizzate comunità cittadine italiane, da un lato, e contro l’espansionismo serbo dall’altro. Soprattutto in Dalmazia si ottenne una progressiva repressione dell’elemento italiano, che fu spinto ad una prima emigrazione verso nord (Zara, Trieste e Venezia) o sulle isole. Quindi le tensioni fra le due nazionalità italiana e serba non furono provocate assolutamente dall’arrivo del fascismo (come spesso viene detto).
Dopo l’annessione di Fiume nel 1924 e a seguito degli incidenti anti-italiani avvenuti a Spalato grazie al così detto “fascismo di frontiera” (nudo, crudo e puro) vi fu l’episodio più noto ovvero l’incendio del Narodni dom, la “Casa nazionale slovena” a Trieste. Il discorso del Duce a Pola è emblematico: « Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani ». La situazione degli slavi mutò quindi con l’avvento al potere del fascismo, nel 1922. Fu infatti varata in tutta Italia una politica di assimilazione delle minoranze etniche e nazionali, che prevedeva l’italianizzazione di nomi e toponimi, la chiusura delle scuole slovene e croate e il divieto dell’uso della lingua straniera in pubblico. Le società segrete slave, preesistenti allo scoppio della Grande Guerra, si fusero in gruppi più grandi, a carattere nazionalista e comunista, come la Borba e il TIGR, che si resero responsabili di numerosi attacchi a militari, civili e infrastrutture italiane. Alcuni elementi di queste società segrete furono catturati dalla polizia italiana e condannati a morte dal tribunale speciale per terrorismo dinamitardo. I rapporti fra la comunità italiana e quelle allogene non migliorarono neppure in seguito agli accordi italo-jugoslavi del 1928, che avrebbero dovuto garantire reciproco rispetto per la minoranza italiana in Dalmazia e quella slava in Venezia Giulia.
Nell’aprile del 1941 l’Italia partecipò all’attacco dell’Asse contro la Jugoslavia, in seguito al colpo di stato che aveva spodestato il governo di Belgrado il 25 marzo 1941 instaurando una giunta filo-inglese e filo-sovietica. L’Italia si annesse una grande parte della Slovenia (dove fu costituita la provincia di Lubiana), la Dalmazia settentrionale e le Bocche di Cattaro.
Inizialmente tranquilla per gli italiani, la situazione nei territori ex iugoslavi annessi, divenne incandescente dopo l’aggressione tedesca all’URSS il 22 giugno 1941, allorché le cellule comuniste “dormienti” in tutta Europa vennero scatenate da Stalin contro l’ex alleato dell’Asse. In tutta la Jugoslavia, allora, iniziò una feroce guerriglia, ben presto degenerata in guerra civile, che coinvolse le truppe italiane in un crescendo di violenze e atrocità reciproche. L’annessione unilaterale da parte dell’Italia di parte dei territori già jugoslavi provocò inoltre un ulteriore inasprimento delle relazioni fra slavi e italiani. Nella provincia di Lubiana venne instaurato un regime d’occupazione morbido e rispettoso delle peculiarità locali. Tuttavia l’insorgere di un movimento di resistenza, provocò la nascita di una repressione.
I massacri del 1943 e del 1945 ebbero una componente di insofferenza nei confronti del regime fascista e nei confronti dell’Italia in quanto tale. Quest’ultima aveva le sue radici nelle vecchie contrapposizioni nazionali, preesistenti all’italianizzazione fascista. I rapporti degenerarono ulteriormente a causa dell’invasione della Jugoslavia.
Parte dei massacri avvennero quindi nel contesto di una “jacquerie”, ossia di un’insurrezione spontanea dei ceti popolari jugoslavi, esasperati dalla guerra e dalla repressione e in cui molti colsero anche l’opportunità di portare avanti vendette personali. Questa jacquerie si rivolse non solo verso i rappresentanti del regime fascista, ma anche verso gli italiani in quanto tali. Nell’immaginario popolare jugoslavo dell’epoca si tendeva, infatti, a far coincidere i concetti di “italiano” e di “fascista”; uno stereotipo che ancor oggi è diffuso.
Le esecuzioni di massa contro le popolazioni italiane furono uno strumento di repressione politica ed etnica, organizzato in vista dell’annessione alla Jugoslavia di tutta la Venezia Giulia (incluso Trieste e il Goriziano. Si intendevano inoltre eliminare gli oppositori del regime comunista, ed è in quest’ottica che furono eliminati anche cittadini di etnia slovena e croata. In vista dell’annessione era comunque necessario reprimere le classi dirigenti italiane (compresi antifascisti e resistenti), per eliminare ogni forma di resistenza organizzata. Questo aspetto era determinante a Gorizia e Trieste, la cui annessione non era certa. Tito, pertanto, fece il possibile per occupare Trieste e Gorizia prima di ogni altra forza alleata, per assicurarsi una posizione di forza nelle trattative. Neutralizzati i vertici italiani, tentò di far apparire che gli jugoslavi fossero la maggioranza assoluta. La composizione etnica sarebbe infatti stata un fattore decisivo nelle conferenze che sarebbero seguite nel dopoguerra e, per questo motivo, la riduzione della popolazione italiana sarebbe stata essenziale.
Il ruolo che comunismo ebbe nella vicenda, enfatizzato o minimizzato a seconda del contesto politico fu determinante. Gli eccidi ebbero lo scopo di eliminare i possibili oppositori del costituendo regime comunista. Inoltre, la repressione terroristica della popolazione italiana sarebbe stata difficilmente praticabile da parte di un governo democratico. Un regime repressivo, come quello del comunista di Tito, poté invece attuarla con facilità. Le foibe furono quindi uno dei tanti eccidi mediante che caratterizzarono la presa del potere da parte del regime comunista di Tito.
Il P.C.I. acconsentì a lasciare la Venezia Giulia e il Friuli orientale sotto il controllo dei partigiani di Tito, avallando implicitamente l’espansionismo jugoslavo. Fu per questo motivo che ordinò ai propri combattenti partigiani nella regione di porsi sotto comando jugoslavo.
Terminato il conflitto molti militanti comunisti italiani collaborarono con i comunisti jugoslavi e molti si resero complici dei massacri. Giunsero ad auspicare la formazione di una settima repubblica federativa jugoslava, di carattere italiano, comprendente Trieste, Monfalcone e il Friuli. Negli anni successivi il P.C.I. contribuì a dare una visione alterata degli avvenimenti, volta a minimizzare e a giustificare le azioni dei comunisti jugoslavi.
Per quanto concerne i primi massacri compiuti dagli jugoslavi avvennero dopo l’8 settembre 1943 (armistizio tra Italia e Alleati). Grazie al collasso dell’esercito italiano, i partigiani titini presero il controllo di parecchie aree in Istria e Dalmazia. Improvvisati tribunali popolari, che rispondevano ai partigiani dei Comitati popolari di liberazione emisero centinaia di condanne a morte. Le vittime (circa 600) furono non solo rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, ma anche semplici personaggi in vista della comunità italiana e potenziali nemici del futuro Stato comunista jugoslavo che s’intendeva creare. La maggioranza dei condannati fu scaraventata nelle foibe, alcuni mentre erano ancora in vita.
Nell’ambito dell’Operazione Alarico (l’occupazione dell’Italia in seguito all’armistizio) i tedeschi impiegarono la 71a Divisione di Fanteria di stanza in Carniola e nella provincia autonoma di Lubiana per occupare e rastrellare l’Istria. I croati invasero il Governatorato di Dalmazia annettendolo allo Stato Indipendente di Croazia (con l’eccezione di Zara, che resterà – seppur sotto il controllo tedesco – sotto la sovranità della RSI, fino alla occupazione jugoslava del ottobre 1944). Ai rastrellamenti parteciparono anche reparti della Polizia SS e alcuni reparti italiani della 2a Armata che non avevano deposto le armi dopo l’8 settembre. Venne quindi portata avanti la campagna di repressione della resistenza dai comandi germanici. Con l’espulsione dei partigiani, divenne possibile eseguire varie ispezioni nella foibe, dove furono rinvenuti i resti di numerosi cadaveri. Il compito di ispezionare le foibe fu affidato al maresciallo dei Vigili del Fuoco Arnaldo Harzarich di Pola, che condusse l’indagine dall’ottobre 1943 al giugno del 1945.
Il vero e proprio “massacro delle foibe” si ebbe subito dopo la fine della guerra, anche se un preambolo si ebbe nel corso dell’occupazione delle città dalmate dove risiedevano comunità italiane, come a Zara (ottobre 1944). A partire dal maggio del 1945, i massacri si verificarono in tutta la Venezia Giulia (Trieste, Gorizia, Istria e Fiume). A Gorizia e Trieste (occupate dai il 1° maggio), i massacri cessarono con l’arrivo degli alleati il 12 giugno. I baratri venivano usati per l’occultamento di cadaveri con tre scopi: eliminare gli oppositori politici e i cittadini italiani che si opponevano alle politiche del Partito Comunista Jugoslavo di Tito; dominare e terrorizzare la popolazione italiana delle zone contese ed in qualche caso vendicarsi di nemici personali.
Quindi nelle foibe sono stati gettati molti dei cadaveri delle persone eliminate dai partigiani jugoslavi. Le vittime civili e militari sono state fucilate e gettate in foiba. In alcuni casi, come è stato possibile documentare, furono precipitate nell’abisso non colpite o solo ferite. Sebbene quest’ultima modalità di esecuzione fosse, come già detto, solo uno dei modi con cui vennero uccise le vittime dei partigiani di Tito, nella cultura popolare divenne il metodo di esecuzione per eccellenza ed un simbolo del massacro. In realtà la maggior parte delle vittime, date per infoibate, sono stati inviate nei campi di concentramento jugoslavi dove molte furono uccise o morirono di stenti. Tra i caduti figurano membri del Partito nazionale fascista, ufficiali e funzionari pubblici, parte della dirigenza italiana contraria sia al comunismo, sia al fascismo (tra cui compaiono capi di organizzazioni partigiane anti-fasciste) sloveni e croati anti-comunisti, collaboratori e nazionalisti radicali e semplici cittadini. Nel dopoguerra e dopo, non furono mai effettuate stime scientifiche del numero delle vittime, che venivano usualmente indicate in 20.000. Studi rigorosi sono stati effettuati solo a partire dagli anni ’90. Una quantificazione precisa è impossibile, vi è infatti una generale mancanza di documenti, che spesso non furono nemmeno emanati dalle autorità jugoslave. Il governo jugoslavo(e successivamente quello croato) non ha inoltre mai accettato di partecipare a inchieste per determinare il numero di decessi.

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