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Pane, acquacotta e pancotto

Giugno 01
02:00 2008

Er pane casereccio (G.G.Belli)
«Hai fatto er pane in casa eh pacchiarotta?
Parla, racchietta mia friccicarella:
perch’io t’allumo qui sta bagattella
de pattume all’usanza de pagnotta.
La pagnotta maneggiata viè più jotta,
dunque lasseme dà ‘na mantella,
eppoi fàmme assaggià la sciumachella,
c’hai niscosta li giù calla che scotta. Io te do in cammio un maritozzo fino
de certa pasta scrocchiarella e tosta
che nun te la darebbe un cascherino.
Sto maritozzo a me caro me costa,
e te lo vojo dà senza un quadrino:
anzi de più ciabbuscherai la posta.»

Il pane e l’erotismo. Il pane e la quotidianità. Il pane come salvezza dalla fame. Il pane. Protagonista assoluto della cucina romana. I romani non riescono a mangiare senza. Una trilogia in versi sulla cucina romana di Aldo Fabrizi inizia con La Pastasciutta, continua con Nonna minestra e termina con Nonno pane a testimonianza dell’importanza di questo companatico a volte avaro, specialmente nella campagna romana e durante i periodi di guerra.
Dalla pagnotta ai panini alla Giudia, dalla panzanella al pane rifatto in Pandorato fino all’acquacotta e al pancotto che proprio durante i periodi di guerra e carestia rappresentavano il pasto della ‘pora gente’di campagna nei dintorni di Roma.
Del resto Roma mostra un interesse particolarissimo nei confronti del pane e di tutti quegli elementi magici che contribuiscono a dargli vita, ovvero grano, farina e forni tale che perfino il contadino ne rimane stupefatto. Anche in questo caso il Belli si fa portavoce di questo mito riparatore attraverso uno dei suoi sonetti:
«Domani è l’Ascenzione: ebbè, sta notte
Nostro Signore, pe bontà divina
Se ne scegne dar cielo alla sordina,
mentre che l’universo o dorme, o fotte;
e va per tutte le maése rotte,
dicenno ar grano: Alò, passa e cammina:
l’acqua diventi latte, eppoi farina,
pe diventà poi pasta, eppoi pagnotte.»

Anche qui ne sono testimonianza, ancora viva e visitabile, la Cappella seicentesca a San Bartolomeo all’Isola dedicata all’Arte dei Molinari, i cui Molini galleggiavano sul Tevere; ma anche la tomba che si può ammirare a Porta Maggiore verso l’esterno, in cui Roma lascia ai posteri il ricordo del fornaio Marco Virgilio Eurisace e della moglie Atistia. Una tradizione perpetuata tuttora dai Gentilini e dai Panzanella, ma anche dalla ricchezza di prodotti che la vista, ma anche il naso possono apprezzare entrando in qualsiasi forno di Roma e provincia. Oltre che alla panzanella e alla bruschetta, il pane risulta essere l’ingrediente principe di altre due preparazioni rustiche e poverissime di Roma e dell’Agro Pontino: acquacotta e pancotto.
L’acquacotta, sta all’origine della zuppa, come afferma il famoso detto popolare che li associa: «se non è zuppa è pan bagnato, ed è un piatto che ‘Pane sprega e trippa abbotta’».
Si prepara lasciando cuocere dell’acqua con erbette di campagna e bagnandovi del pane condito con olio a crudo.
Il classico mangiare dei ‘bifolchi’. A Roma ci siamo fermati li mentre altrove, nel Viterbese come nella Maremma toscana si possono assaporare ricette ben più elaborate (Acquacotta alla Viterbese o Acquacotta con le Erbarelle).
Se nell’acquacotta, l’acqua bollita con le erbe viene versata sopra al pane nelle scodelle, nel pancotto, come dice la parola stessa, è il pane ad essere cotto direttamente nell’acqua.
La ricetta classica la possiamo trovare ne La cucina romana di Ada Boni: «si mette in una pentola una quantità d’acqua proporzionata al numero delle zuppe; si aggiunge un po’ di sale, un dito di olio e un paio di spicchi d’aglio mondati. Si rompe in piccoli pezzi il pane… si lascia bollire il tutto per qualche minuto. Il pancotto dovrà risultare denso e piuttosto elastico. Si scodella, aggiungendo in ogni piatto un altro pochino d’olio e un pizzico di persa, nonché, se piace, un pizzico di pepe…».
Preparazione oggi non più apprezzata che serviva per smaltire il pane avanzato… qualora ce ne fosse.

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