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Radici storiche e prospettive dell’Umanesimo

Aprile 01
02:00 2008

L’educazione millenaria che ci sostanzia, e di cui siamo interpreti e portatori, chiama tutti noi a riprendere il filo d’Arianna della speranza, della fede costruttiva nei valori, cooperando a un progetto di riappropriazione, di centratura, di nuovo umanesimo.
Richiamiamoci ad esempio alla sua determinazione storica: l’Umanesimo quattrocentesco. Fu diverso nei vari centri culturali, ma ebbe tratti comuni con cui penetrò ovunque, espressione di un mutato atteggiamento umano. Gli umanisti mandarono in frantumi le grandi “cattedrali di idee” del Medioevo, le possenti sistemazioni logico-teologiche: il Sapere che sussumeva ogni problema a quello religioso, chiudendo tutto nella trama verticale-piramidale di un ordine prestabilito (sulla base dell’auctoritas). La realtà degli umanisti non è più statica, cristallizzata, astorico oggetto di contemplazione: essi indicano la strada verso un “mondo aperto, discontinuo, contraddittorio, dai volti innumerevoli e cangianti, ribelle ad ogni sistemazione, cui avvicinarsi in una ricerca perenne, mobile, sottile e varia sino a rispecchiare l’infinita molteplicità delle cose”1.
L’autorità indiscussa dispensava dalla ricerca diretta, da ogni sforzo di approfondimento. Ora si rinuncia alle antiche sicurezze.
Nasce il libero esame: uno spirito nuovo e spregiudicato, che fa sorgere il sapere dal “rischio” dell’esperienza, dall’esercizio fluido della ragione, dal confronto col caso volta a volta particolare. Ed ecco l’interpretazione storicistica dei fenomeni di una cultura che, recuperando il patrimonio del passato, si pone essa stessa nei termini di colloquio umano, in senso orizzontale. La logica di Aristotele, così, non è più parola indiscutibile, ma prodotto storico e relativo di “un” pensatore, definito nel tempo suo proprio.
La scoperta del passato determinò una visione mondana della realtà e un’umana spiegazione della storia. Si intuì che la storia è fatta dagli uomini, che la storia siamo noi. Si impose il senso plastico del poiein, della piena creazione umana, dell’opera terrena, della responsabilità.
Nacque l’interesse per la vita attiva come vita politica, attività per il bene comune, esercitata dagli uomini per costruire e migliorare la loro esistenza. L’analisi filologica dei documenti culturali, infatti, offriva la possibilità di chiarire, da uomini a uomini, il significato della presenza e della convivenza umana attraverso i secoli.
Questo diede l’Umanesimo: il senso dei valori umani, la luce acuta della ragione, la capacità di giudizio e di discernimento, la possibilità di un lavoro intellettuale libero, disinteressato, autonomo. L’uomo, insomma, si rivelò a se stesso.
Il governo della ragione si impose sul caso e sul caos (ad es. gli istinti), determinando l’affermazione concreta dell’uomo sulla terra, lo sviluppo del suo potere sulle forze della natura. Fu l’equilibrio della forma e della vita: la forma organica, colma di vita e, parallelamente, la vita regolata e razionale.
Ma alla fine del ‘700, con la rivoluzione industriale, l’uomo imbocca decisamente la via tecnologica, innescando un processo che porta alle estreme conseguenze la cultura umanistica, rinnegandone all’interno i presupposti. Un processo che poi sfugge di mano, producendo infine gli squilibri sociali e planetari che tutti conosciamo. Ciò accade perché la ragione-forma, compromessa col potere economico, prevale dal fluido gioco creativo della vita, imponendosi come forma di per sé, come nuova auctoritas, come valore assoluto, pretendendo cioè di autofondarsi, di autogiustificarsi. Ed ecco il pernicioso razionalismo. L’Umanesimo non separava la ragione dall’anima, perché sapeva che senza il soffio di quest’ultima, senza la sua luce, quella muore – cioè produce morte.
Da un lato, col prevalere delle discipline scientifiche, la cultura si tecnicizza, diventa addirittura tecnocratica. Dall’altro essa, ormai squilibrata, decreta per reazione la morte della ragione, abbandonandosi al culto degli istinti, delle forze oscure, e venendo così a negare all’uomo la capacità di un dominio su se stesso e sul mondo circostante.
È la fine dell’Umanesimo.
Il culto delle antichità, peraltro, si presta anch’esso a operazioni strumentali: diventa ideologia delle classi dominanti (classicismo), cioè vuoto formulario retorico privo di presa sulla realtà dell’uomo.

Può l’umanesimo sopravvivere, oggi, a distanza di secoli? Deve, anzi. “L’umanesimo ha possibilità e diritto di sopravvivere” – scriveva Ranuccio Bandinelli all’inizio degli anni Sessanta – “solo se ritrova il suo spirito originario, i motivi che conferirono all’uomo moderno libertà e spirito critico e lo resero atto a comprendere tanto le bellezze dell’arte e la verità della storia quanto la forza rinnovatrice della scienza”.
È evidentemente tempo di nuovo umanesimo. Una cultura aperta che sappia riequilibrarsi intorno all’uomo, riequilibrandolo a sua volta. Che sappia porsi come sinodo aperto di tutti i saperi, chiamati nuovamente a dialogare, a porsi come discorso umano, come “zampilli di un’unica fonte”2. Superare le secche del nichilismo, del relativismo esasperato, del “pensiero debole”. Ritrovare la giusta “misura umana”. Aiutare l’uomo a ritrovare un fine degno di lui. Un appello che Moravia lanciava già quarantacinque anni or sono – dalle pagine di un saggio emblematico, fin dal titolo, ma ancora in attesa di rivelarsi profetico – e che oggi pare quanto mai appropriato, necessario, attuale: “È urgente che il mondo torni ad esser fatto alla misura dell’uomo. Soltanto in un mondo fatto secondo la sua misura, l’uomo potrà ritrovare un’idea adeguata di se stesso e riproporsi se stesso come fine e cessare di essere mezzo”3.
————–
1 Eugenio Garin, “L’umanesimo italiano”, Roma-Bari, 1993, p. 17.
2 Maria Pia Spagnuolo, “Zampilli di un’unica fonte”, Roma, 2004.
3 Alberto Moravia, “L’uomo come fine”, Milano, 2000, p.149. La prima edizione del libro è del 1963.

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