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Tra Cristo e Pilato

Marzo 25
11:45 2009

Immaginate un povero Cristo (Lui in persona, non l’idiomatismo per indicare un disgraziato qualunque), all’incirca settantenne, incerto sulla sua natura (e fin qui niente di strano, visto che se ne è dibattuto per secoli), il suo ruolo (Messia, profeta, o visionario per professione, avendo fallito un’onesta carriera da falegname). Incerto perfino sui propri miracoli! Ma furbetto abbastanza da riuscire a cavarsela in quella spinosa situazione dell’adultera da lapidare. Capace inoltre di complicati equilibrismi per non trasgredire né alla legge divina né alla legge di Cesare. E, infine, tanto abile da sottrarsi ‘pilatescamente’ a domande pericolose con uno ieratico “Tu l’hai detto”. Insomma una vera ‘croce’ per sua madre, che lo vede inadatto a qualsiasi terrena occupazione, e tuttavia continua a credere in Lui, fino al supremo sacrificio, lasciando cioè che la sua ‘follia’ lo conduca dove per l’ottusa mente umana è inevitabile che vada: alla rovina. In tutto ciò inoltre un Giuda eroico, appena citato, che accetta la propria damnatio memoriae in nome dell’amore per il Maestro, che solo attraverso un umano tradimento avrebbe potuto seguire la strada segnata. Immaginate allo stesso tempo un vivacissimo Pilato, scattante, iperattivo, forzatamente rassicurante nel tentativo di convincersi e convincere che Cristo non è morto per niente sulla croce, e il suo ‘compare’ Giuseppe d’Arimatea se lo è portato via per morto, dandola a bere perfino al centurione, così che la sua sparizione dalla tomba nient’altro sarebbe che un’umanissima fuga ben architettata; e le sporadiche apparizioni poi si spiegherebbero come gli inevitabili avvistamenti di Gesù da parte dei conoscenti, nonostante quel furbacchione cercasse di mimetizzarsi ben bene sotto un cappuccio. Questo in soldoni il soggetto dello spettacolo Il vangelo secondo Pilato, portato in scena al Valle a dicembre dalla Compagnia Mauri Sturno, per la regia di Glauco Mauri, su una rielaborazione teatrale del romanzo di Erik-Emmanuel Schmitt. In cui, se appare meritevole la riedizione drammaturgica in due parti (La notte degli ulivi, antefatto in forma di lungo monologo di Cristo la notte prima di salire sulla croce, e Il vangelo secondo Pilato) delude però nell’effettiva realizzazione scenica l’assegnazione ‘canonica’ dei ruoli. Poiché, se un grande attore deve poter con pieno diritto continuare a lavorare senza sottostare all’umana legge della pensione, deve però altresì calarsi in ruoli idonei, per non finire col sopravvivere a se stesso. Detto questo, la sobria essenzialità delle scene, ‘l’arcaico’ scrivano curvo sotto il peso dei segreti del potere, la stupefatta ingenuità dell’uomo Gesù che nella realtà della propria carne non riesce a riconoscere l’alito della divinità, l’ostinata volontà razionalistica del potente nel tentare di spiegare l’inspiegabile per una valutazione di opportunità politica ci immergono gradualmente nel più affascinante mistero, antico di secoli, attraverso cui l’Oriente sfida e vince la concretezza della civiltà romana.

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