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Un pugno di mosche

Settembre 15
09:53 2012

Case diroccate a Mogadiscio, capitale della Somalia. La guerra pesa con la sua costante presenza da ben venti anni.
Fra le pietre dell’odio non sa nascere neppure un fiore.
“Svegliati!” gridò Hamar al suo amico Osman, “guarda cosa mi hanno regalato quei signori in divisa.” “Cosa?” chiese il ragazzo sgranando gli occhi ancora addormentati e pieni di mosche.
“Sì” continuò imperterrito Hamar, “tocca tu stesso! Un’arma giocattolo! La desideravo da tempo e solo ora è arrivata come una Befana inaspettata.”
“Ehi! Ma ne ho una anche io!” esclamò Osman. “Com’è grande, sembra quasi vera. L’avranno lasciata stanotte mentre dormivamo sodo.”
Un’ombra si parò davanti alle figure dei due ragazzi: non era minacciosa. Il suo volto esprimeva risolutezza, la divisa grigio verde, le braccia incrociate e muscolose parlavano da sole: si trattava di un guerrigliero del fronte somalo.
“Cosa ci fai tu qui?” chiese Hamar “e perché questi giocattoli? Sono un tuo dono? Dove li hai pescati?”
La bocca del soldato trovò un sorriso per rispondere.
Il comandante aveva mandato proprio lui, il più reticente ai rapporti umani, per questa missione assurda.
“Ragazzi,” iniziò con voce incerta, “la guerra sa trasformare molte cose; questa è una delle peggiori svolte che noi tutti avremmo scartato, se la necessità non lo avesse richiesto.”
“Di che parli soldato?” chiese Hamar togliendosi una mosca dal naso con le mani sporche.
“Non ti capisco, sii più chiaro!”
“Certo, lo sarò” rispose l’uomo in divisa. “Queste armi non sono giocattoli, faranno di voi bambini soldati come noi; le dovrete usare contro il nemico e condurre la nostra stessa vita. Sarete parte di un gruppo di ribelli che ha un suo nome specifico e per ora siete in addestramento. Necessitiamo di persone, abbiamo avuto molte perdite e per questo il Comandante ha deciso di strapparvi dalle morse di una vita randagia vita e darvi un lavoro, anche se la vostra età non lo consentirebbe. Non posso fare nulla per voi.”
I due ragazzi non avevano ascoltato che poche parti del discorso ufficiale; erano impegnatissimi a esaminare ogni millimetro di quell’arma sconosciuta e desiderata.
Avevano compreso che avrebbero dovuto usarla e uccidere, avrebbero dovuto cambiarsi il cuore, chiuderlo in una scatola insieme agli occhi per non trovarsi spaventati di fronte alla morte, forse sparare nel vuoto, per non ascoltare la coscienza che si sarebbe sicuramente ribellata.
Come prepararsi a queste immagini? Come preparare il proprio corpo e dirgli “Puoi morire da un giorno all’altro, senza che nessuno lo sappia, senza una croce dove cercare le lacrime di un essere umano.”
Hamar e Osman fissarono il soldato di fronte a loro. Avevano captato che non aspettava risposte: era un ordine perentorio null’altro.
I ragazzi erano a conoscenza che molti loro coetanei svolgevano già quel lavoro, anzi erano stati coinvolti nonostante il divieto sull’utilizzo dei bambini-soldato, che ne tutelava i diritti umani. Avevano sentito parlare dell’argomento anche dal Presidente degli Stati Uniti Obama, che aveva definito la loro terra “senza legge.”
E la carestia che li divorava puntualmente? Hamar e Osman si alzarono dal giaciglio, uscirono da quella casa diroccata, seguendo il soldato.
L’atmosfera quella dell’assenso forzato. Che altro comportamento avrebbero potuto tenere con il fucile vero? Quello che aveva rappresentato un sogno era realtà: anch’essi avevano armi per giocare con la morte.
Il soldato-messaggero li condusse dal Comandante: tipo rozzo, impassibile nei gesti; dette la mano ai ragazzi e si chiuse nella sua tenda da campo bucata. Quello il rituale di accoglienza formale per chiunque avesse potuto impugnare un’arma.
Hamar e Osman si guardarono. Un incubo li aveva strappati alla fantasia. I giochi a nascondino nelle case fatiscenti di un ex quartiere italiano, sostituiti da un dollaro al giorno per sfamarsi.
“Mi chiamo Alì, non Alì Babà”, sorrise il commilitone che li accompagnava, per tagliare l’alito pesante della situazione.
“Ora vi condurrò al posto di blocco a sud di Mogadiscio; troverete altri ragazzi della vostra età, forse anche più piccoli. Intanto masticate questa: è una gomma molto buona, vi aiuterà a stare meglio.”
Simili a due robot, Hamar e Osman presero quelle strane foglie color menta e masticarono in fretta, mentre lo stomaco borbottava una colazione decente e non quella schifezza.
“Possiamo fare qualche domanda?” chiesero i due ragazzi all’unisono.
“Certo” rispose Alì, “non troppe, non potrei accontentarvi.”
“Ci sarà una scuola per noi?” chiese Hamar, il più alto dei due. Essere più alto lasciava dedurre che il ragazzo fosse il più grande. Avere un certificato di nascita per gli orfani era una difficoltà estrema. Gli anni si davano in base all’altezza. Tutto lasciava pensare che Hamar ne avesse più o meno dodici e Osman dieci; in quell’accidente di posto le regole funzionavano in modo quasi alieno.
Era il gioco delle probabilità. Cosa avrebbe contato saperlo? Se bambini di nove anni erano già presenti al fronte e rischiavano la loro vita, un lavoro qualsiasi, senza pensare ad altro, invischiati in un fango che li sovrastava, guidavano camionette dove era necessario mettere cuscini affinché arrivassero al volante con le manine piccole.
Tenere e struggenti immagini di una non-civiltà, di un degrado mentale che non aveva confini. Alì rispose ad Hamar che la scuola non esisteva e neppure i libri, o chi potesse insegnare loro a leggere o scrivere; la vita si snodava giorno per giorno nella guerra tra fazioni, nel numero di uomini uccisi e nel controllo per chi entrava nel paese senza permesso.
Osman sputò quella schifezza di gomma. Lo rendeva strano, gli girava la testa e accusava un forte senso di vomito.
“Non devi!” lo rimproverò aspramente Alì, “devi masticare per almeno un paio d’ore, il tempo necessario che faccia effetto.”
Il ragazzo ammutolì, raccolse la gomma sporca di terra e tentando di dargli una pulita, stropicciandola fra i vestiti, la rimise in bocca, con aria rassegnata.
Hamar, che aveva copiato il compagno, nascondendo i suoi gesti, per non sentire quella voce odiosa fece la stessa cosa.
Furono consegnate ai ragazzi due divise mezze lacere e non fresche di bucato. Si capiva che avrebbero dovuto indossarle senza creare problemi.
Hamar e Osman furono presentati agli altri compagni: tutti ragazzi più o meno della loro altezza che li osservavano con fare consumato, quasi fossero veri soldati pronti a qualsiasi sacrificio, per una causa, creduta giusta. Il loro sguardo non aveva alcuna traccia infantile.
Come benvenuto fu dato loro un tozzo di pane secco: momento “ad hoc” per trascurare quel dannato strumento a forma di giocattolo e per gettare la strana gomma dall’amara essenza.
Molti dei ragazzi presenti, dopo questo rituale arido, presero le camionette per diverse direzioni.
Rimase solo di guardia un bambinetto di circa nove o dieci anni, con grandi occhi scuri. Hamar e Osman, sottoposti a quella revisione infantile vestita da adulto, si sentivano in estremo imbarazzo…
“Salve mi chiamo Alim”, si presentò il ragazzetto “e voi non vi presentate? È d’obbligo nell’esercito federale ai posti di blocco. Molti integralisti cercano di passare e coglierci di sorpresa, come fossimo mosche; ci schiacciano, ci massacrano.”
Quelle parole, stonate come una corda di violino rotta, fecero ridere i due ragazzi.
“E tu saresti di guardia a questo posto di blocco da quanto? Due giorni?” Il ragazzino li guardò di traverso. “Sono qui da tre anni e gestisco questa postazione.” Il suo tono da duro non accettava repliche. Somigliava agli uomini del Far West, nel momento del comando del tipo “Caricaaaa!”. Hamar e Osman smisero di ridere, dissero i loro nomi e imbracciarono il fucile in segno di intesa e sottomissione.
“Bene” continuò Alim, “oggi sarete con me, in questa postazione per imparare come ci si comporta nei posti di blocco.”
Entrò nella tenda fatiscente e con le dita sporche buttò giù un pugno di roba bianca su una pentola che bolliva.
“Mangerete con me,” disse “per oggi; da domani vi arrangerete come volete.” Alim “l’indomabile”, lo chiamavano, nonostante gli occhi scuri e quei capelli biondi che creavano un contrasto insolito. Era stato abbandonato dai genitori, fuggiti in Kenya. Alim, allo sbando, si era unito all’esercito somalo per sopravvivenza.
Ogni tanto si passava le mani nei capelli, così ungeva anche loro, era un vezzo che aveva da quando aveva raggiunto quel posto di blocco e si era messo a masticare quella gomma amara più volte al giorno.
Il senso dell’irrealtà prendeva possesso di lui, giocava seriamente con un compagno, dava ordini, seguiva chi entrava e usciva da quel maledetto posto di blocco, con scrupolosità non infantile, da vero soldato di un esercito ormai sgangherato.
Hamar e Osman cercarono di fare amicizia. Che parola era quella? In questa dannata valle deserta non si conosceva che polvere, attenzione e fucile sempre appiccicato al corpo come una sanguisuga e occhi sempre spalancati.
Il misero pasto restituì un po’ di buon umore ai ragazzi. Alim non dava affatto confidenza e continuava a studiare cartine, mappe sdrucite in un silenzio sgarbato.
Una camionetta arrivò e ne scesero due uomini; dissero qualcosa ad Alim, che asserì e salutò con il classico saluto militare i due soldati. Un bambino che gioca alla guerra! Così appariva quel biondino in terra d’Africa.
Appena il camion ripartì, Alim si avvicinò ad Hamar e Osman, ordinando loro di pattugliare la zona circostante; sembrava fosse entrata nei confini una spia straniera.
I ragazzi obbedirono, avviandosi fra le dune per cercare chi? Dovevano ucciderlo o solo catturarlo?
Si guardavano sbigottiti, impreparati, allo sbando, come cani a cercare indizi sniffando la terra.
Un puntino colorato apparve da lontano.
Sbandava, fino a che non cadde a terra. Hamar e Osman si avvicinarono cautamente, pensando che la loro prima missione sarebbe stata un successo. Quell’uomo rappresentava sicuramente la spia ricercata.
La delusione fu grande: si trattava di un somalo colpito alla gamba, un estremista islamico, come loro, che aveva avvistato la spia ed era stato colpito, dopo aver sparato.
I due ragazzi furono invitati a continuare nelle ricerche, l’uomo ribadì che avrebbe provveduto a raggiungere il posto di blocco con le sue forze.
La sera stava accendendo le luci notturne. I due ragazzi non avevano trovato la spia: Missione fallita… Fallita un corno! Al ritorno furono redarguiti violentemente da Alim; l’uomo incontrato dalle due giovani reclute era la spia! Erano stati ingannati dalla falsa ferita e dal tono apparentemente sincero di quell’uomo.
Hamar e Osman non toccarono nulla della strana zuppa preparata da Alim. Furono costretti a rimasticare quella gomma amara per altre due ore e mandati a dormire su pagliericci fra le solite mosche.
Mogadiscio dormiva, sebbene molti occhi vegliassero sulla città.
Quando la stanchezza fa da padrona su un corpo non si vorrebbe mai venisse mattina.
Hamar e Osman si svegliarono in mezzo a quella sporcizia e al maleodorante pagliericcio. Lo stomaco bussava per la fame e la pelle per una gradevole doccia.
La voce di Alim li destò del tutto, rioffrendo loro quell’orribile sostanza da masticare. Aveva forma e colori diversi: sembrava una foglia secca.
“Mangiate!” ordinò “seguitemi, ciò che è successo ieri non dovrà più avere vita in questo posto di blocco, disonorato da voi.” Il tono usato era quello di uno stupido scherzo.
I due ragazzi si stropicciarono ben bene gli occhi e incontrarono lo sguardo fiero di Alim. Erano davvero in guerra, i fucili reali; non erano protagonisti di un film, ma di una guerra maiuscola.
Fu fatto un programma ben preciso sui turni da fare, su ciò che doveva essere chiesto a chi oltrepassava quella postazione, i documenti da chiedere. Presenza immancabile: il fucile pronto a sparare.
Chiunque legga questa storia si chiederà, spero, il modo in cui possa finire.
È una storia qualunque, drammatica nei suoi aspetti, perché il suo contenitore riguarda contesti tristi, che vengono poco o niente seguiti. Riescono a passare inosservati, come una mosca, come le tante mosche che devastano questo paese.
Somiglierà alla storia infinita, solo per comunanza di aggettivo e non per altro…
Potrà mai avere un termine una guerra che da venti anni ha messo le radici in questo paese?
Nonostante la mediazione di altri paesi potenti, nessuno è mai riuscito a dare sopore alla guerriglia, alle fazioni che si combattono.
Un lavoro quotidiano senza vincitori né vinti, come in altre etnie, in altri luoghi avvengono situazioni simili e i ragazzi non conoscono infanzia, adolescenza, bensì fucili da imbracciare, non sapendo bene per quale causa. Ragazzi che lavorano per i governi federali e crescono nei sacrifici e nelle rinunce di una vita non adatta a loro.
Passarono alcuni mesi, Hamar e Osman non commisero più errori. Eseguivano gli ordini come veri soldati, masticando quelle foglie amare che rappresentavano l’effetto placebo per accettare la triste realtà.
Una specie di droga, come altre; un luogo ideale in cui rifugiarsi e cercare la forza per andare avanti.
Una camionetta tentò, quel malefico giorno, di passare con violenza. Alim comprese la gravità della situazione, non riusciva a tenerla sotto controllo. Chiamò Hamar e Osman. Si sparò a raffica: qualcuno fu colpito gravemente.
Può andarsene una piccola vita senza aver conosciuto l’amore di una madre, il calore di un pasto caldo consumato in famiglia, avere dei giochi, saper leggere e scrivere, inserirsi in un mondo pacifico?
Alim, figlio di un inglese e di una somala, non avrebbe mai assaporato i piaceri di una vita normale. Aveva sposato qualcosa più grande di lui, poiché altro non conosceva.
Quella testolina bionda e quegli occhi scuri, quel comportamento da soldato di un esercito bambino. Aveva giocato nella vita con un fucile che lo aveva condotto a chiudere una parentesi mai aperta, mai potuta apprezzare, un suono falso che esce dalla bocca per imitare e giocare come i soldatini di piombo colorati, che creano posti di blocco senza per questo morire.

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