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Ai tempi del muro

Settembre 01
02:00 2007

C’era una volta una città, simbolo orgoglioso dell’unità nazionale raggiunta, sorniona e curiosa, arrogante, elegante, formale e trasgressiva, espressione tangibile della lucida ironia e di tutte le contraddizioni dell’anima prussiana. La seconda guerra mondiale ne spense lo sfavillio, come in un diamante spezzato si era interrotta quella rifrazione di luce che la vitalità di un intero popolo emana e che sola può fare di una città una vera capitale. Recidendo le arterie materiali e ideali che la legavano al resto del paese, imprigionandola come enclave in quella che veniva a chiamarsi DDR (Deutsche Demokratische Republik), la Storia sembrava cancellare Berlino, condannandola ad una sorta di damnatio memoriae. Dalla spartizione del suo territorio, ‘coronata’ in piena guerra fredda dalla costruzione del muro (e immaginate quale pasticcio urbanistico-ingegneresco-burocratico sia stato separare opere di urbanizzazione, strade, fognature,ecc. pensate unitarie), erano nati due tronconi informi. Di questi, quello assegnato al controllo delle forze alleate, Westberlin, Berlino Ovest, riprendeva, sia pur faticosamente, un suo percorso di sviluppo generosamente sostenuto dalla BRD (Bundesrepublik Deutschland) e legato alla crescita economica e culturale della Germania Ovest. L’altro, Ostberlin, Berlino Est, soffocava lentamente nelle sabbie mobili dell’immobilismo economico e del burocratismo poliziesco di impronta sovietica. A Berlino Ovest si affollavano razze e culture in un melting pot degno della più avanzata realtà statunitense. Profughi russi e iraniani svendevano per sopravvivere i resti di antiche fortune o dilapidavano tesori fortunosamente esportati. Il colorato quartiere di Kreuzberg, dove i Turchi si arroccavano e instauravano una microeconomia, conviveva con la compostezza neoclassica di Charlottenburg. Istituti di cultura e consolati pullulavano di spie di tutte le origini e provenienze. E i funzionari governativi inviati dal resto della Germania ricevevano un Berlinzutat, ‘supplemento Berlino’, una indennità di rischio. Poiché Berlino era considerata una bomba potenziale, pronta ad esplodere alla più minima scossa nell’equilibrio precario delle Superpotenze impegnate nella Guerra Fredda. E da quel pericolo incombente Berlino Ovest riceveva la carica disperata di vitalità, di edonismo, di smodatezza di chi è sempre vicino all’annientamento. La Kurfurstendamm esibiva accanto agli edifici più moderni i fori dei proiettili nei portoni e nei muri di qualche raro edificio Jugendstil sopravvissuto ai bombardamenti. La Savignyplatz ospitava nel suo Schwarzes Café intellettuali e vagabondi, omosessuali, turisti frastornati e studenti. La Pensione Reich, rigorosamente vietata alle donne, accoglieva soltanto ospiti dalla data di nascita compresa entro gli anni ’30 e dal passato chissà dove seppellito. In città, a tutte le ore del giorno e della notte si poteva mangiare cucina di ogni parte del mondo. In città, sul binario uno, arrivava un solo treno per volta, attraversando tra pareti di ondulit il ‘regno proibito’ della DDR. Ben altra aria si respirava infatti a Berlino Est. Ricostruite sommariamente la celebre Unter den Linden e l’Alexanderplatz (ad uso e consumo dei temerari turisti che non si lasciavano scoraggiare dai minuziosissimi controlli e dalle vessatorie pratiche per l’accesso), tutto il resto giaceva nell’incuria e nell’abbandono; allontanandosi dai percorsi ‘ufficiali’ poteva capitare di scorgere ancora le stimmate della guerra, edifici bruciati, macerie fino al secondo piano delle case. Poche le auto e tutte di fabbricazione sovietica, i mezzi pubblici esibivano ancora le casse a manovella dai grandi tasti colorati, degli anni ’40. Il passato era ancora lì e la Storia scorreva altrove.
L’aver colto questa atmosfera di immobilità, di soffocante staticità, l’assenza di speranza e di futuro che segnava il vivere ad Est; e insieme l’aria densa di sospetto, la paralisi della volontà e del desiderio che nascono sempre dal controllo capillare di ogni potere autoritario, è la caratteristica che fa di Le vite degli altri un grande film, giustamente premiato agli Oscar 2007 come miglior film straniero. L’autore, il giovane regista Florian Henckel von Donnersmarck, figlio di profughi dall’Est sembra aver fatto propria la lezione del grande Visconti per lo scrupolo meticoloso con cui ricostruisce ambienti e atmosfere, girando ad esempio nell’ex quartiere generale della Stasi, la famigerata polizia politica dell’Est, e ricostruendone con minuzia filologica le raffinate tecniche di indagine e di interrogatorio. La strana storia d’amore a senso unico che nasce tra un ufficiale della Stasi, il capitano Gerd Wiesler, incaricato di sorvegliare il drammaturgo Dreyman, colpevole soltanto di avere come compagna la provocante attrice Christa-Maria Sealand, di cui si è invaghito il potente ministro della cultura, e la donna, inconsapevole oggetto del desiderio, condurrà Wiesler ad interagire nell’ombra con le sue ‘vittime’ condizionandone le vite fino alla tragica conclusione. Straordinariamente disegnata la personalità di questo piccola pedina del ‘Grande Fratello’, che, da un iniziale approccio freddo e burocratico al suo incarico, fa germogliare attraverso l’amore la dimensione dell’umanità. Non a caso, interprete eccezionale nel ruolo di Wiesler è l’attore Ulrich Muhe, recentemente scomparso, e vittima egli stesso del sottilmente crudele meccanismo di controllo repressivo instaurato dalla Stasi, spiato nella realtà perfino dalla propria moglie. Un film dunque eccezionale, non solo per la maturità espressiva dimostrata da un regista al suo debutto, ma anche per la sensibilità investita dal protagonista nel ricreare un clima e una realtà dolorosamente vissuta in prima persona.

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