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La notte nera

La notte nera
Novembre 01
02:00 2006

Il prematuro buio settembrino avvolge le rovine di Ostia antica: le ombre sulla città morta regalano suggestioni diverse dagli abituali tramonti che in luglio, da dietro il palco del teatro romano, sbirciano gli eventi proposti. Questo settembre inconsueto è mese già autunnale, nostalgico di passati tepori e sensibile a nuovi brividi. Porta silenzio e sconcerto, quasi paura. Poi in un posto così’ Qualcuna di queste sensazioni le provano I Giardini di Mirò chiamati ad aprire la Notte Nera, uno degli ultimi appuntamenti del Festival Cosmophonies di quest’anno: difficile stare su quel palco perché è difficile capire che musica vogliano ascoltare quelle pietre millenarie e quei pini lontani; il mood degli spettatori in un posto così lo determina la scenografia più che il vissuto recente che ognuno si porta dentro. Ci provano i post-rockers nostrani ad interpretarlo con un concerto che parte dolce per poi finire tirato, comunque gradevole, ma Ostia antica è un posto dove o ci vai con un’idea precisa oppure ti schiaccia e i Giardini chiedono un calore che il pubblico presente non può dare loro. Poco dopo arrivano gli scozzesi De Rosa convinti della loro musica e chissà forse ignari del Vallo di Adriano: fanno uno show che davvero non regala nulla e non si addice a luogo, pubblico e headliners (i Mogwai). Hanno un merito però: far trascorrere il tempo che serve al parco archeologico a far montare la nebbia’ Si perché quest’anno l’autunno a Roma lo portano i Mogwai con la loro musica figlia della Northumbria e di un talento sconfinato: la natura presaga di bellezza conviene e contribuisce ammantando il catino del teatro di fitta nebbia. Colonne, pini e rovine sfumano fino a scomparire lasciando la scenografia più bella che si possa immaginare: la nebbia comincia a risuonare delle dolenti e malinconiche chitarre dei ragazzi di Glasgow, il pubblico si zittisce concentrandosi, il cuore si scalda. L’inizio è fatto di un divertissement che è anche un tributo all’Italia e di una canzone che sa di nostalgia di casa: poi le note attraversano una carriera giovane, ma già corposa da cui poster pescare pezzi che accarezzano di brividi la pelle dei 2 o tremila spettatori. Difficile determinare se sia la fredda nebbia atlantica o questa musica che sa di lontano e canta di emozioni senza esser cantata, ma il suo prodotto è la commozione autentica, quella che porta alle lacrime. La musica dei Mogwai è narrazione che abbandona geometrie e percorsi figurativi: è puro cortocircuito emozionale che pulsa solo di stacchi tra i pezzi (a volte neanche quelli) e vive di delicati arpeggi o potenti muri di chitarre. Un’ora e mezza di catarsi vera la cui fine è annunciata dal diradarsi della nebbia: s’apre lo scrigno che ha racchiuso un’emozione e noi ne usciamo silenti tra le rovine complici.
‘A volte c’è tanta bellezza nel mondo’ si diceva in American Beauty’

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