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La rinascita di un’opera dimenticata

Novembre 01
02:00 2006

M.Teresa AgnesiDelle diverse opere liriche scritte da Maria Teresa Agnesi, l’Ulisse in Campania, rappresentata per la prima volta nel 1768 al Teatro S.Carlo di Napoli, è rimasta nell’oblio per circa due secoli, fino alla sua riscoperta da parte della Fondazione Adkins Chiti: Donne in Musica, membro del Consiglio Internazionale per la Musica dell’UNESCO, che dal 1978, attraverso una vasta rete di musicologhe, compositrici e associazioni affiliate di 116 paesi, opera per la diffusione e valorizzazione della produzione musicale, di ogni genere, da parte delle donne. Nella biblioteca della Fondazione sono attualmente custodite oltre 32000 partiture di musica ‘al femminile’, e fra queste una copia autorizzata del manoscritto originale dell’Ulisse in Campania, di cui recentemente il compositore Gian Paolo Chiti e il musicologo Domenico Carboni hanno riproposto al pubblico una loro lettura. L’opera, in tale revisione critica, è stata rappresentata in prima mondiale al Teatro di Schönbrunn a Vienna, nel corso delle celebrazioni tenute dal 21 al 23 settembre per il 250° anniversario della nascita di Wolfgang Amadeus Mozart. In prima nazionale, in Italia, è stata rimessa in scena in forma semi-teatrale il 1° ottobre 2006, al Teatro Quirino di Roma, con la regia di Patricia Adkins Chiti, l’orchestra del Centro Italiano di Musica Antica diretta dal maestro Riccardo Martinini, la coreografia di Mario Piazza e i magnifici costumi settecenteschi creati per l’occasione dal laboratorio dell’Accademia di Costume e Moda. Molto belle anche le luci di Daniele Davino che hanno dato splendore alla monocromia dei costumi dominata dal bianco-avorio. L’Ulisse in Campania costituisce senz’altro un’interessante e preziosa testimonianza dell’opera seria settecentesca, ma la sua ‘scoperta’ ha più valore archeologico-musicale che artistico, e concordiamo pienamente con il giudizio dei revisori: ‘Dal punto di vista musicale il lavoro testimonia la grande padronanza tecnica della Agnesi sia nella parte vocale che strumentale’. Le sue origini celebrative, in occasione del matrimonio di Ferdinando di Borbone, re di Napoli, con la principessa Maria Carolina d’Austria, ne fanno un’opera d’occasione e non d’ispirazione. Manca, infatti, ogni coinvolgimento drammatico e tutto si svolge come un perfetto compito da conservatorio, eseguito secondo i canoni della poesia scenica di Pietro Metastasio e quelli musicali della classica serenata settecentesca di argomento mitologico-pastorale allegorico. Il contenuto classico dell’opera (l’arrivo di Ulisse a Cuma) è pertanto trasfigurato in invenzioni tipicamente settecentesche e in profezie della sibilla cumana evidentemente fuori tempo, allusive a una rinascita in Campania degli antichi splendori della Magna Grecia, per opera dei nuovi regnanti, i Borboni. Pur non mancando momenti di profondo coinvolgimento emotivo, dovuto più alla raffinatezza della musica che ai contenuti che sono privi di ogni drammaticità, per questa ‘rinata’ opera condividiamo l’espressione di Giulio Confalonieri1:’Se la creazione artistica non sommuove in essa [la fantasia] qualcosa che, sino ad allora, era giaciuto inespresso, resta bene dove si trova.’ L’Ulisse in Campania, infatti, al di là dei preziosismi musicali, che confermano la fama di eccellente clavicembalista e dotta compositrice di Maria Teresa Agnesi, manca di quel pathos e di quell’afflato che sono l’anima e la ragione di successo della grande opera lirica. La sua riesumazione è tuttavia opera senz’altro meritoria, ma il tentativo di riprodurre fedelmente il contesto artistico delle rappresentazioni originali settecentesche è destinato a fallire, per motivi oggettivi. Le rappresentazioni moderne delle opere settecentesche, infatti, sono necessariamente orfane di tre elementi che le caratterizzavano e distinguevano dalle regie e interpretazioni del melodramma cui noi oggi siamo abituati: il timbro vocale particolarissimo dei ‘sopranisti’, le loro ‘fioriture’ (integrazioni al testo musicale e librettistico) e, infine, le improvvisazioni del ‘maestro al cembalo’. L’evirazione cui volontariamente si sottoponevano i cantanti dell’opera seria settecentesca, i cosiddetti ‘sopranisti’, conferiva loro un timbro di voce che oggi ci è ignoto e non è riproducibile. Il loro timbro vocale era una strana alterazione di quello tipico dei bambini (le ‘voci bianche’) dovuta alla ben più grande capacità dei polmoni e alla fissità d’intonazione dell’adulto. In tal senso è ammirevole lo sforzo della regia di Patricia Adkins nel cercare di riesumare in qualche modo queste particolari vocalità, assegnando a cantanti donne i ruoli maschili di Ulisse e Telegono. I sopranisti, inoltre, erano quasi sempre anche musicisti esperti e profondi conoscitori dell’arte della composizione musicale, quindi in grado di aggiungere con grande disinvoltura, secondo la loro ispirazione, musica e testo all’opera originale dell’autore. Queste integrazioni erano considerate normali, veri e propri abbellimenti che sviluppavano quanto l’autore si era limitato ad accennare. Infine, nell’orchestra settecentesca, erano sempre presenti due cembali: in uno il solista teneva gli accordi, nell’altro il direttore d’orchestra sosteneva il recitativo e improvvisava variazioni musicali sullo spartito. Per tali ragioni, un’opera lirica settecentesca era sempre diversa e irripetibile, e a maggior ragione lo è oggi.
1 Giulio Confalonieri, Storia della Musica, ediz.Accademia, Milano 1975, p.502.

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