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Martedì 7 maggio 1527: un sacco di guai per Roma

Agosto 11
02:00 2007

“Era di già tutto il mondo in arme”, ricorda Benvenuto Cellini nella Vita. Il “sacco” di Roma va infatti inquadrato nel contesto delle lotte tra la Francia e l’Impero per l’egemonia europea; lotte che, nella loro prima fase (1521-1529), protagonisti rispettivamente Francesco I e Carlo V, elessero l’Italia a teatro d’azione e campo di battaglia, finendo per riservarle anni durissimi, “pieni di rumore e di furore”. C’era peraltro in corso, ad aumentare la carne al fuoco, lo scontro frontale tra i Riformati luterani e il Papismo di Roma, che già aveva avuto modo di estrinsecarsi in “guerra di immagini”: a fronteggiarsi e rispondersi, l’un l’altra, le decorazioni sublimi di un Raffaello, su tutti, e le stampe polemiche d’oltralpe (le xilografie satiriche di un Cranach, ad esempio), in cui la semplicità evangelica veniva fortemente contrapposta al lusso scandaloso del pontefice. Dai Luterani quest’ultimo era visto e sentito come Anticristo, così come Roma diffamata a mo’ di Grande Prostituta, “bugiarda Sodoma e Gomorra di tutte le nequizie”(1), abitata solo da schiavi, crapuloni e ipocriti: Babilonia destinata quindi a cadere, prima o poi, sotto il fuoco del castigo soprannaturale. Spaventose e spaventate predizioni popolari annunciavano il crollo, ormai prossimo venturo. Si temeva e preconizzava, quasi per esorcizzarlo, l’incubo che poi, puntualmente, finì per realizzarsi: il saccheggio di Roma, la profanazione del soglio pontificio, l’irruzione degli “eretici” per le strade e le chiese della “Città Eterna”. I papi, dal canto loro, giostravano indecisi tra i due fronti. Leone X passa dall’intesa iniziale con Francesco I (per l’eventuale spartizione del regno di Napoli) all’alleanza ispano-imperiale, alimentata sia dalla gratitudine per la restaurazione medicea del 1512, sia dalla speranza del possesso di Parma, Piacenza e Ferrara. Anche il fiammingo Adriano VI mantiene il favore a Carlo V: e non potrebbe essere altrimenti, dacché ne è stato l’antico precettore. Clemente VII, invece, allenta i vincoli con l’Impero per sottoscrivere la lega di Cognac (1526), promossa da Francesco I. È la mossa fatale. Un esercito di 14.000 lanzichenecchi scende in Italia e sbaraglia facilmente (a Borgoforte, nei pressi di Mantova) la fiacca resistenza delle truppe della lega, poste sotto il comando di Francesco Maria Della Rovere, già duca di Urbino, e del valoroso Giovanni delle Bande Nere. Ridotti ormai a un’orda indisciplinata, poiché rimasti privi di paga, i lanzichenecchi, di loro stessa iniziativa e senza averne avuto ordine esplicito da Carlo V, raggiungono incontrastati le mura di Roma.
Leggiamo il Gregorovius: “Percorsa l’Italia con l’impeto di una valanga, l’esercito del Borbone si era aperta la strada nel territorio romano. I monti, i fiumi, le strade rese impraticabili dal fango, la neve, le fitte piogge invernali, la fame atroce e il nemico alle spalle: tutto ciò non aveva potuto arrestare l’avanzata delle milizie imperiali. Il volere di Dio, dicevano i luterani, le spingeva avanti perché punissero Roma, asilo di ogni turpitudine, su cui ora il destino spiegava le proprie nere ali”(2).
In città giunge notizia che il nemico è ormai alle porte: all’iniziale incredulità subentra presto il turbamento, uno scoramento profondo, un terrore che cresce di ora in ora. I lanzichenecchi si dispongono a semicerchio da porta S. Pancrazio a porta Torrione (oggi Cavalleggeri), nelle immediate vicinanze del Vaticano. È un’accozzaglia di uomini stanchi e disperati, ma per questo ancor più pericolosi. All’alba del 6 maggio squilla il segnale di attacco: al grido di Spagna! e Impero! l’orda di “diavoli furibondi”(3) penetra entro le mura, attraverso più varchi, e si riversa nel Borgo, trucidando chiunque capiti a tiro, armato o inerme non importa, e cominciando prontamente a far man bassa. Una schiera, ad esempio, non si perita di fare ignobile e gratuita carneficina tra i degenti dell’ospedale di S. Spirito. Clemente VII ripara in tutta fretta a Castel S. Angelo, dove una moltitudine si precipita accalcandosi e lasciando a terra corpi esanimi di calpestati o soffocati. Dappertutto è un penoso scenario di fuga, di morte, di devastazione. Gli imperiali, peraltro, sono esposti ai tiri degli artiglieri, asserragliati a difesa di Roma, da Castel S. Angelo. Fra questi anche il “bombardiere” Cellini che, preoccupato sempre di affermare se stesso di fronte agli altri e contro ogni ostacolo, fa della narrazione del sacco, nella Vita, ulteriore uso per attribuirsi il ruolo da “mattatore” a lui più consueto e congeniale(4). A un certo punto una palla di archibugio uccide il conestabile Borbone. I romani esultano, convinti che la morte del loro generale possa fiaccare i nemici; ma devono ben presto ricredersi, poiché essa, anzi, infonde loro una furia tale che si gettano all’assalto con veemenza se possibile maggiore. Ancora il Gregorovius: “Terribili ore furono quelle che precedettero la mezzanotte (…) Nelle case sbarrate regnava un’angoscia mortale. Ogni suono di tamburo, ogni colpo di cannone, ogni squillo di tromba faceva tremare migliaia di persone”(5); sicché, quando poi spuntò “l’alba del 7 maggio lo spettacolo che Roma offriva di sé era più orribile di quanto si possa immaginare: le strade ingombre di rovine, di cadaveri e di moribondi; case e chiese divorate dal fuoco, dalle quali uscivano grida e lamenti; un orribile trambusto di gente che rubava e che fuggiva; lanzichenecchi ubriachi, carichi di bottino o che si trascinavano dietro prigionieri (…) Niente e nessuno fu risparmiato”(6). Il saccheggio porta a un bottino finale di stratosferiche proporzioni: ben 20 milioni di fiorini d’oro. Ma gli imperiali non si accontentano di rubare: l’impeto predatorio si accompagna a una cieca e irrazionale volontà di sfregio, di profanazione, che ovviamente non si arresta, ma anzi viepiù si accende, davanti ai simboli e ai luoghi religiosi: siano pure quelli più eccelsi, come la cappella Sancta Sanctorum o la Basilica di S. Pietro. “I soldati giocarono a dadi sugli altari sbevazzando nei sacri calici in compagnia di laide prostitute. Nelle navate e nelle cappelle, così come nel palazzo Vaticano, furono approntate stalle per i cavalli ma, al posto della paglia, furono usate le bolle e i manoscritti che un tempo i papi umanisti avevano raccolto con tanta passione”(7). Numerosi gli ecclesiastici umiliati, violentati, trascinati per le strade a pugni e a calci. Cristoforo Numalio, cardinale francescano, viene strappato dal suo letto, posto su una bara e portato in processione, mentre i lanzichenecchi, con tanto di candele accese, gli cantano grotteschi inni funebri. Poi, giunti all’Aracoeli, i soldati scoperchiano una tomba e minacciano il cardinale di seppellirlo vivo, se non pagherà la somma richiesta. Particolare oggetto di vilipendio le cerimonie religiose: come quando, tra schiamazzi e risa oscene di scherno, alcuni ceffi ubriachi bardano un asino con paramenti sacri e, fattolo inginocchiare, costringono un sacerdote a dargli la comunione. La follia del sacco sembra inverare il topos del “mondo alla rovescia”: donne comuni e sventurate monache vengon trascinate, nude e piangenti, per le vie di Roma, fin dentro le “tane” dei soldati ubriachi, e nobildonne degradate al ruolo di sguattere, a servizio delle truppe, mentre “cortigiane avvolte in mantelli di porpora e in paramenti sacerdotali si accompagnavano con risa sguaiate a brutali lanzichenecchi che spingevano davanti a sé preti coperti da abiti femminili”(8). Le gente viene sequestrata e taglieggiata : “non ci fu individuo maggiore di tre anni che non fosse costretto a pagare il proprio riscatto”(9). Al punto che molti, colti dalla disperazione, preferiscono il suicidio alla prigionia, la morte al dolore delle violenze, ferocemente e ripetutamente inferte dai persecutori. Scrive Francesco Guicciardini nella sua Storia d’Italia (1561): “Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli che erano miseramente tormentati, parte per astringerli a fare la taglia, parte per manifestare le robe ascose”(10). Il Caos, insomma. Anche Castel S. Angelo è preda di confusione indescrivibile. Mancano fra l’altro le vettovaglie: gli Spagnoli impediscono qualunque tipo di rifornimento, sia pure un poco di insalata per il papa. Mentre i morti, insepolti, cominciano ad appestare l’aria e serpeggiano le prime avvisaglie della peste, il sacco prosegue per forza d’inerzia: benché, dopo i primi tre giorni, il principe di Orange ne abbia ordinato la sospensione, i soldati continuano imperterriti nelle loro feroci scorribande. E intanto, recluso a Castel S. Angelo, Clemente VII fissa ansiosamente l’orizzonte per scorgervi, invano, i suoi liberatori. Tremende furono le conseguenze per la vita artistica e culturale. Molti intellettuali vennero torturati o uccisi, privati dei loro libri, indotti al suicidio. Ci fu chi tentò di fuggire, chi si mise a disposizione degli invasori, chi addirittura impazzì. Le vite furono sconvolte, segnate, scompaginate11. Di quelle convulse giornate rimase un buco nero nelle coscienze. Ne venne la rovina di un mondo e poi, con la diaspora degli artisti, la nostalgia di Roma “prima del sacco”, idealizzata per sempre come “paradiso”, nell’armonia sublime di un apogeo forse irripetibile.
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1 F. Gregorovius, Storia di Roma nel Medioevo, Roma, 1972, Vol. VI, p. 281.
2 Ivi, p. 278.
3 Ivi, p. 283.
4 Il ricordo “eroico” delle terribili giornate del sacco impegna diversi capitoli del Libro Primo della Vita. Cellini scrive, fra l’altro: “Io mi attendevo a tirar le mie artiglierie, e con esse facevo ognindì qualche cosa notabilissima; di modo che io avevo acquistato un credito e una grazia col Papa inestimabile. Non passava mai giorno che io non amazzassi qualcun degli inimici di fuora”.
5 Gregorovius, op. cit., pp. 286-287.
6 Ivi, p. 287.
7 Ivi, p. 288.
8 Ivi, p. 294.
9 Ivi, p. 293.
10 Proprio analizzando gli accadimenti del sacco, Guicciardini arriva ad eleggere la Fortuna – con i suoi oscuri e implacabili disegni – a guida della Storia.
11 Non a caso Giorgio Vasari dipinge il trauma del 1527 come una frattura storica decisiva, facendone una sorta di fil rouge della sua opera (le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori, edita a Firenze nel 1550).

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