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Presentato il testo poetico “Verticalità”

Gennaio 18
18:13 2010

Testimonianze autorevoli sono inoltre giunte da Aldo Onorati e dal Poeta Gianni Rescigno. Gradevolissimi e sommamente apprezzati gli intermezzi al flauto del Maestro Mario Alberti.
Poeta e critico letterario, saggista, Sandro Angelucci vive a Rieti. Insegnante, collabora a varie riviste culturali con recensioni, note critiche, testi poetici ed è stato premiato in concorsi a livello internazionale. Un suo profilo critico è inserito nel IV° Volume della Storia della Letteratura Italiana “Il secondo Novecento” (Guido Miano Editore). Ha pubblicato le raccolte di poesia Non siamo nati ancora e Il cerchio che circonda l’infinito. Inoltre, nei quaderni de “Il Croco”, ha pubblicato Appartenenza e Controluce. Del suo lavoro si sono occupati importanti critici, poeti, scrittori, e questo testo, ancora fresco di stampa, sta ottenendo consensi da parte della più attenta critica nazionale.
Basti dire che il prefatore dell’opera è Silvano Demarchi e che fra i critici che hanno espresso pensieri lusinghieri sulla stessa va annoverato Giorgio Barberi Squarotti, forse il maggiore critico letterario vivente in Italia. “Verticalità” (il titolo è tutto un programma) è un testo di profonda tensione spirituale, scritto con una limpidezza espressiva sconcertante. Non presenta paroloni difficili, né concetti astrusi, né quei fanatici funambolismi linguistici tanto in voga oggigiorno, che sono inespressivi e fini a se stessi. Siamo su un binario diametralmente opposto al virtuosismo, al tecnicismo, al fanatismo, al pavoneggiamento linguistico.
La poesia di Angelucci è cristallina, ma può risultare difficile proprio per questa sua limpidezza. L’elementarità, infatti, richiede di smantellare le proprie sovrastrutture mentali, i propri pregiudizi, tanto che dovremmo considerare la semplicità come una conquista e non un dono. Possiamo anche considerarlo un dono, volendo, ma un dono che si smarrisce e si recupera faticosamente. È in sostanza un lavoro di pulizia mentale quello che svolge e propone l’autore: un’autoanalisi profonda, in un discorso piano, sommesso, colloquiale, che non è quello di un intimismo chiuso in se stesso. Sta qui l’ansia di cielo che trasuda da queste poesie: “Sogno di cielo/che vince la gravità dei corpi/che a volte s’inabissa e poi risorge./Fiamma che sale./Brace che si accende”. Una spiritualità autentica, una religiosità non confessionale, che si trova agli antipodi di ogni gabbia mentale e di ogni indottrinamento. Ma non si pensi ad un’accensione mistica che tenda ad annullare il piano orizzontale, fisico. La dualità è fondamentale in questa visione del mondo che, come dice Demarchi in prefazione, è “esistenziale e insieme religiosa”; angosciata e illuminata d’infinito nello stesso tempo. Una poesia keerkegaardiana, potremmo dire, ma francescana nello stesso tempo.
Una verticalità, dunque, che richiama l’orizzontalità, e viceversa. Un’estraniazione/partecipazione rispetto al mondo, che ha il senso dell’equilibrio, dell’armonia. Il poeta si sente sartrianamente gettato nel mondo, nel male di vivere, nella pena quotidiana, e tuttavia un trasalimento improvviso lo scaraventa fuori di sé per aprirgli scenari desueti. Così grida: “Io non sono qui./Sono lassù,/dove la neve copre le distese”. E ancora: “C’è un’altra terra/per le mie radici/e un altro cielo/per i miei germogli”. Questa capacità di distaccarsi dalle cose terrene è in realtà un modo per riappropriarsi di se stessi, della propria vera patria di appartenenza, tornando poi nel mondo con maggiore lucidità operativa. Il poeta cerca la comunione con il proprio essere. Sa che non potrà mai raggiungerla pienamente, perché si rende conto, come lui stesso dice, di essere appena un barlume di se stesso; ma tanto basta per resistere all’aggressione di un mondo che tenta di rubarlo chiassosamente a se stesso, allontanandolo fra l’altro dalla vera comunione con gli altri esseri. “Verticalità”, dunque, come tensione verso l’Alto, ma anche come sentimento corale di vera e orizzontale fratellanza. Un desiderio di elevazione che è anche ricerca dell’umana saggezza.
Scrive l’autore: “Non vedi/che tutto torna a Lui/tutto si rinvergina/dopo essersi nutrito con l’amore?/E invece/per chi si ciba delle scorie,/dei veleni dell’ipocrisia,/dei soliti egoismi/tutto precipita/tutto finisce dentro il buco nero/che inghiotte spirito e materia?”. Ed eccola la punizione per il materialismo imperante. Un boomerang. Esso ama a tal punto la materia che la distrugge. Un amore morboso, possessivo. Ed è qui che scatta la rabbia, lo sdegno di Angelucci. Questa poesia spiazza perché, pur essendo squisitamente mistica, ha momenti di ribellione pubblica: “La voce di un poeta/è quella del silenzio/ma questo canto è lotta,/guerra che si combatte senza tregua/fino alla resa,/finché non sgorghi il sangue”. E scatta l’invettiva: “Siete troppo presi/a far quadrare i conti/del dare e dell’avere./E non sapete/che siete in debito,/siete in bancarotta”. E ancora: “Mi accusano in silenzio./Il mio reato? Falsa testimonianza./Sono colpevole/di dire le cose come stanno/di rifiutare la verità/di cui vorrebbero convincermi/e soprattutto/di scrivere e cantare la Bellezza”. La collera cresce pensando al “manipolo d’ingordi”, “i nuovi Proci/affaristi con le tasche piene” che hanno scacciato l’Onnipotente “sedendosi sul trono/che fu della Bellezza e dell’Amore”.
Il poeta si sente in balia del mondo, un agnellino indifeso, ma accetta la sfida e scrive: “è questo vivere/che non sa che farsene del mio cadavere,/che mi ricerca/che mi vuole vivo/come il più incallito dei delinquenti./Ma non mi avrà/perché più della fine/immensamente temo la cattura”. Potrebbe sembrare la dichiarazione di un aspirante suicida. In realtà, il morire di cui qui si parla non è che uno sparire dentro se stessi, un mettersi in salvo aprendo la porticina segreta che immette nei recessi del proprio spirito: “Trafitto dalla luce del tramonto/ogni giorno, nella mia morte/io mi metto in salvo”.

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